venerdì 12 dicembre 2014

Music and me



Buondì, cari lettori.
Quest’oggi accantonerò occasionalmente il sarcasmo per occuparmi di un tema a me da sempre particolarmente a cuore: la musica, o meglio il mio rapporto con essa. Sovente mi sono sentita domandare quale fosse la causa della mia radicata musicodipendenza, quali i motivi che mi legano così visceralmente alla stessa e per i quali non v’è frammento fra i miei ricordi che sia privo di colonna sonora. Ebbene, per comprendere appieno, suppongo sia necessario partire dal principio.
La ragione per cui ho impiegato l’espressione “da sempre” risiede nel fatto che, sin da quando ho memoria, essa ha svolto un ruolo centrale nella mia vita, prima ancora della scrittura e di tutto ciò che l’ha illuminata negli anni a venire. Poiché prima di apprendere a leggere e scrivere, sono stata istruita a suonare. Taluni potranno stupirsi dinnanzi alla decisione di introdurre una bambina di appena tre anni allo studio di uno strumento musicale; l’origine di ciò potrà esservi più chiara facendo ingresso, assieme a me, nei meandri del cosiddetto metodo Suzuki.
Shinichi Suzuki (1898-1998), violinista giapponese di profondo spessore morale, coniò il metodo nel corso del ‘900 sulla base delle teorie educative pedagogiche di Maria Montessori e Jean Piaget, le quali riponevano ampia fiducia, nonché un forte accento sulle capacità intellettive puerili e sulla necessità di investire sulle stesse. Il sistema di Suzuki partiva da un saldo postulato, totalmente opposto a buona parte delle dottrine precedenti: ogni bambino sulla faccia della Terra nasce con del talento; sarà poi l’ambiente in cui eplicherà la propria esistenza a consentirgli di coltivarlo, e dunque svilupparlo, o meno. Alla luce di ciò, la creazione di un contesto favorevole all’apprendimento è fondamentale, e prima verrà realizzato, più incisivi saranno i suoi effetti.
Suzuki credeva profondamente nella forza educativa e benefica della musica, che essa potesse plasmare nobili individui, osservando inoltre che “le corde non hanno anima, esse vivono attraverso quella di chi le fa vibrare”. Ho sempre una lieve commozione, ogniqualvolta leggo questa frase. Lo scopo del maestro era ben definito: « Voglio creare bravi cittadini. Se un bambino ascolta buona musica dal giorno della sua nascita ed impara a suonarla da solo, allora svilupperà sensibilità, disciplina e pazienza. Ed otterrà uno splendido cuore.» 
Ciò che ad egli premeva non era dunque l'esortazione allo studio, o l'apprendimento della tecnica; si trattava di un'educazione globale.



Differentemente rispetto al metodo tradizionale, in quello tracciato da Suzuki è l'ascolto a precedere l'atto del suonare. Osservando come l'emulazione fosse alla base dei processi di assimilazione dei primi anni di vita, il maestro constatò che così come un bambino apprende l'uso della parola ascoltando e ripetendo continuamente quanto proferito dai genitori, analogamente può appropriarsi del linguaggio musicale, ascoltando e ripetendo una reiterata nota, un ritmo e infine una melodia, propostagli dall'insegnante e replicata dai genitori nel corso della giornata, fino ad un totale assorbimento.
Era esattamente questo il modus operandi della mia insegnante, anch'ella di origine nipponica e piuttosto avanti con l'età. "Io insegno lei, lei insegna Dìrin"- diceva sempre a mia madre. Passava interi pomeriggi a propinarmi gli stessi identici suoni, poi ripetutimi altrettante volte dai miei una volta rincasati, mentre io, nella mia piena vivacità infantile, zompettavo qua e là nella sua graziosa dimora, mutilando tutti i soprammobili a portata di mano. Probabilmente nel rompere quelle splendide statuette in porcellana, le mandavo in frantumi anche i nervi e i coglioni, eppure la signora Murata non perse mai la sua proverbiale pazienza, nemmeno una volta, e parimenti non cessò mai di insegnarmi a svilupparla a mia volta. Ogni giorno avvertivo quei teneri rumori sempre più familiari e quelle note sempre più prossime al mio cuore, ma più d'ogni altra cosa scoprivo sempre più a fondo la straordinaria natura di quella fidata amica, la musica, di cui mi ritrovai a non poter più fare a meno, proprio come si auspicava il lungimirante Suzuki. In maniera totalmente impercettibile, imparai a rispettare la disciplina, imparai la compostezza, la perseveranza e la pazienza. Che la più eccelsa rilevanza non l'aveva il risultato, bensì il cammino che mi conduceva allo stesso. Imparai a percorrerlo con volontà e determinazione, senza perdere mai l'ardore. Imparai a suonare, in definitiva, pur senza saper leggere uno spartito. 
Negli anni successivi, insegnanti calcolatori e privi di passione lesero in parte il mio rapporto col pianoforte, allontanandoci l'uno dall'altra, senza tuttavia riuscire ad intaccare in alcuna maniera le basi su cui tale relazione era nata. Quando ne ebbi a sufficienza e decisi di proseguire da autodidatta, mi ritrovai con ingenti lacune tecniche che fu proprio l'udito a compensare.
Al di là di ciò, nonchè dei benefici cognitivo-cerebrali che, secondo recenti ricerche (Nina Kraus, Northwestern University, Chicago)  lo studio musicale precoce comporterebbe, debbo molto più di quanto avrei mai potuto immaginare al signor Suzuki, tra cui senza dubbio parte di ciò che sono oggi.
Vorrei concludere con una splendida citazione dello stesso, che tra le molteplici proferite nel corso della sua duratura parabola di vita, meglio racchiude l’essenza del suo sogno imperituro: “che la musica renda l’uomo migliore, porti la pace e la gioia di vivere”.

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