mercoledì 24 dicembre 2014

Jingle bells


Come ogni anno eccoci qui, immersi nelle festività natalizie, presi a domandarci cosa recare in dono a questo, cosa farcene del consueto presente inutile di quello, come passare il 31, in attesa di qualche svolta dell’ultimo minuto, ma soprattutto come evitare di condurre il già magro portafoglio a sfiorare l’anoressia.
Sovente, in tale periodo dell’anno, buona parte degli individui tende a scindersi in due opposte fazioni. Da un lato abbiamo i grinch, coloro che ripudiano il Natale, o per determinati traumi passati, o per la profonda convinzione priva di fondamento che molti serbano, secondo cui odiare ciò che i più amano contribuisca a corroborare il proprio alone di figaggine, sempre ammesso che taluni ne abbiano mai avuto uno, o semplicemente perché gli sta sulle palle. Ci può stare, dai. Essendo più volte capitato che certi soggetti mi stessero a pelle sulle palle (che splendida allitterazione), non mi sento di condannare chi avverte tale sentore verso un particolare evento dell’anno. Mentre costoro tentano di frenare i propri istinti piromani di fronte a tutti gli abeti decorati che si trovano dinanzi, d’altro canto vi sono i natalofili, alias coloro che darebbero via un rene pur di estendere il periodo natalizio a tutto gennaio, febbraio, marzo, e perché no ad aprile. Il natalofilo intraprende la propria briosa campagna di esultanza il primo dicembre, rievocando la propria maglia in lana tempestata di cuciture a forma di renne e fiocchi di neve, che indosserà fino a febbraio inoltrato, riesumando, come da tradizione, l’albero finto dal garage, addobbato a dovere mentre intona l’immancabile compilation natalizia, saltellando come un’antilope dopata sulle note di Bobby Helms una volta terminato, e cominciando, colmo di letizia, un conto alla rovescia al fatidico 25. Il natalofilo  non offre la propria euforia, LA IMPONE a chi lo circonda, a maggior ragione se il povero malcapitato dovesse appartenere alla prima categoria. L’ipotesi in cui all’interno della medesima famiglia dovessero coesistere membri di entrambi gli ordini è a dir poco spettacolare; ho assistito coi miei stessi occhi alla sognante giocondità di madri intente a maneggiare variopinte palle di Natale, e al parallelo supplizio dei figli, che in religioso silenzio demolivano le proprie.


Quanto alla sottoscritta, definirei la mia di posizione un po’ più equilibrata. Da non cristiana, non ho mai avvertito in alcun modo la spiritualità del Natale, ma è innegabile come sotto le feste l’aria sia impregnata di una palpabile magia, che personalmente adoro. Quindi sì, sono una fan del Noël, pur non girando con un cappellino rosso dal primo al trentuno, con un perenne sorriso da orecchio a orecchio. Mi limito ad assumere tali vesti solo il 25. 
Dopo aver trovato le forze di abbandonare la coperta zebrata in pile ed aver fatto colazione con pandoro e cappuccino, avvio la mia amata playlist natalizia, che di norma fa da sottofondo a buona parte della giornata; Drifters, Brenda Lee, Darlene Love, Elvis Presley e un buon 90% delle colonne sonore di “Mamma ho perso/riperso l’aereo”. A proposito, NON E’ MAI NATALE SENZA MAMMA HO PERSO L’AEREO, non a casa mia. In fin dei conti, tutti noi ci accorgiamo del sopraggiungere del suddetto giorno anche dalla reiterata prassi televisiva di trasmettere le vicende di Kevin McCallister, “Miracolo sulla 34° strada”, “Una poltrona per due” e compagnia bella (ma poi sono l’unica a non aver mai visto “Una poltrona per due”? Quest’anno vorrei rimediare). Ogni volta, oltretutto, le mie radicate speranze che i signori Parenti e Vanzina mi concedano la grazia, astenendosi dall’impugnare la cinepresa, si rivelano vane, ma in cuor mio non demordo.
Come larga parte di voi, anch’io ho effettuato una toccata e fuga alle fiere natalizie (non ai meracatini, tuttavia), quelle in cui ti vendono al doppio del prezzo articoli che potresti tranquillamente ritrovare al mercatino del sabato. Come di consueto, ho tentato di celare al meglio delle mie capacità l’abituale misantropia che mi pervade ogniqualvolta mi ritrovo in un ingorgo dalla durata variabile di 5-10 minuti, causato dal torrente umano tipico di questo genere di eventi, a cui ogni anno mi prometto di non prendere più parte ma a cui puntualmente mi lascio trascinare dall’entusiasmo e da un’immotivata fiducia nel prossimo. Parimenti ho preservato lodevolmente la mia larga pazienza, nel frenare spinte sadiche e istinti omicidi dinanzi alle gentildonne che, come consuetudine, trattenevano alla cassa i negozianti, i cui attributi strusciavano a terra già da un’abbondante mezzora, con i propri indispensabili quesiti, incuranti della chilometrica fila alle proprie spalle, nonché del latente rischio di linciaggio ad opera del signore in andropausa immediatamente successivo, che nell’attesa del proprio turno avrebbe probabilmente potuto redigere una nuova edizione del Decameron. 
Le mie visite alle fiere, nondimeno, non si rivelano mai totalmente inutili; come ogni anno, ho avuto modo di congedare tutta la mia dignità presso gli immancabili stand gastronomici meridionali, abbandonandomi ad orgasmi multipli nell’addentare sublimi e pesantissimi arancini e assurgendo alla wirkliche form hegeliana nel portarmi a casa due buste stracolme di prodotti calabro-pugliesi. Che Dio ti benedica sempre, o divina Terronia.     
Nel chiudere questo intervento, rivolgo i miei più sinceri auguri a voi, cari lettori, perché possiate avere un sereno Santo Natale nella gloria di Jesus se cristiani, e perché possiate abbuffarvi e stare in compagnia come la sottoscritta, se laici. In ogni caso, in questi ultimi dì tra i propositi che usualmente si annoverano per l’anno a venire non dimenticate i più importanti, che sovente vengono sottointesi, eppure lasciati alla dimenticanza: amatevi e siate felici, per quanto alle volte la vita tenti in ogni modo di impedirvelo. Amatevi e siate felici.

With love,
Shirin


venerdì 12 dicembre 2014

Music and me



Buondì, cari lettori.
Quest’oggi accantonerò occasionalmente il sarcasmo per occuparmi di un tema a me da sempre particolarmente a cuore: la musica, o meglio il mio rapporto con essa. Sovente mi sono sentita domandare quale fosse la causa della mia radicata musicodipendenza, quali i motivi che mi legano così visceralmente alla stessa e per i quali non v’è frammento fra i miei ricordi che sia privo di colonna sonora. Ebbene, per comprendere appieno, suppongo sia necessario partire dal principio.
La ragione per cui ho impiegato l’espressione “da sempre” risiede nel fatto che, sin da quando ho memoria, essa ha svolto un ruolo centrale nella mia vita, prima ancora della scrittura e di tutto ciò che l’ha illuminata negli anni a venire. Poiché prima di apprendere a leggere e scrivere, sono stata istruita a suonare. Taluni potranno stupirsi dinnanzi alla decisione di introdurre una bambina di appena tre anni allo studio di uno strumento musicale; l’origine di ciò potrà esservi più chiara facendo ingresso, assieme a me, nei meandri del cosiddetto metodo Suzuki.
Shinichi Suzuki (1898-1998), violinista giapponese di profondo spessore morale, coniò il metodo nel corso del ‘900 sulla base delle teorie educative pedagogiche di Maria Montessori e Jean Piaget, le quali riponevano ampia fiducia, nonché un forte accento sulle capacità intellettive puerili e sulla necessità di investire sulle stesse. Il sistema di Suzuki partiva da un saldo postulato, totalmente opposto a buona parte delle dottrine precedenti: ogni bambino sulla faccia della Terra nasce con del talento; sarà poi l’ambiente in cui eplicherà la propria esistenza a consentirgli di coltivarlo, e dunque svilupparlo, o meno. Alla luce di ciò, la creazione di un contesto favorevole all’apprendimento è fondamentale, e prima verrà realizzato, più incisivi saranno i suoi effetti.
Suzuki credeva profondamente nella forza educativa e benefica della musica, che essa potesse plasmare nobili individui, osservando inoltre che “le corde non hanno anima, esse vivono attraverso quella di chi le fa vibrare”. Ho sempre una lieve commozione, ogniqualvolta leggo questa frase. Lo scopo del maestro era ben definito: « Voglio creare bravi cittadini. Se un bambino ascolta buona musica dal giorno della sua nascita ed impara a suonarla da solo, allora svilupperà sensibilità, disciplina e pazienza. Ed otterrà uno splendido cuore.» 
Ciò che ad egli premeva non era dunque l'esortazione allo studio, o l'apprendimento della tecnica; si trattava di un'educazione globale.



Differentemente rispetto al metodo tradizionale, in quello tracciato da Suzuki è l'ascolto a precedere l'atto del suonare. Osservando come l'emulazione fosse alla base dei processi di assimilazione dei primi anni di vita, il maestro constatò che così come un bambino apprende l'uso della parola ascoltando e ripetendo continuamente quanto proferito dai genitori, analogamente può appropriarsi del linguaggio musicale, ascoltando e ripetendo una reiterata nota, un ritmo e infine una melodia, propostagli dall'insegnante e replicata dai genitori nel corso della giornata, fino ad un totale assorbimento.
Era esattamente questo il modus operandi della mia insegnante, anch'ella di origine nipponica e piuttosto avanti con l'età. "Io insegno lei, lei insegna Dìrin"- diceva sempre a mia madre. Passava interi pomeriggi a propinarmi gli stessi identici suoni, poi ripetutimi altrettante volte dai miei una volta rincasati, mentre io, nella mia piena vivacità infantile, zompettavo qua e là nella sua graziosa dimora, mutilando tutti i soprammobili a portata di mano. Probabilmente nel rompere quelle splendide statuette in porcellana, le mandavo in frantumi anche i nervi e i coglioni, eppure la signora Murata non perse mai la sua proverbiale pazienza, nemmeno una volta, e parimenti non cessò mai di insegnarmi a svilupparla a mia volta. Ogni giorno avvertivo quei teneri rumori sempre più familiari e quelle note sempre più prossime al mio cuore, ma più d'ogni altra cosa scoprivo sempre più a fondo la straordinaria natura di quella fidata amica, la musica, di cui mi ritrovai a non poter più fare a meno, proprio come si auspicava il lungimirante Suzuki. In maniera totalmente impercettibile, imparai a rispettare la disciplina, imparai la compostezza, la perseveranza e la pazienza. Che la più eccelsa rilevanza non l'aveva il risultato, bensì il cammino che mi conduceva allo stesso. Imparai a percorrerlo con volontà e determinazione, senza perdere mai l'ardore. Imparai a suonare, in definitiva, pur senza saper leggere uno spartito. 
Negli anni successivi, insegnanti calcolatori e privi di passione lesero in parte il mio rapporto col pianoforte, allontanandoci l'uno dall'altra, senza tuttavia riuscire ad intaccare in alcuna maniera le basi su cui tale relazione era nata. Quando ne ebbi a sufficienza e decisi di proseguire da autodidatta, mi ritrovai con ingenti lacune tecniche che fu proprio l'udito a compensare.
Al di là di ciò, nonchè dei benefici cognitivo-cerebrali che, secondo recenti ricerche (Nina Kraus, Northwestern University, Chicago)  lo studio musicale precoce comporterebbe, debbo molto più di quanto avrei mai potuto immaginare al signor Suzuki, tra cui senza dubbio parte di ciò che sono oggi.
Vorrei concludere con una splendida citazione dello stesso, che tra le molteplici proferite nel corso della sua duratura parabola di vita, meglio racchiude l’essenza del suo sogno imperituro: “che la musica renda l’uomo migliore, porti la pace e la gioia di vivere”.

venerdì 5 dicembre 2014

Prosopagnosia portami via


Sin dalla mia infanzia, uno dei tratti fondamentali della mia persona è sempre stato lo stesso: la persistenza di una memoria ferrea per i dettagli. A tale curiosa dote, se proprio così vogliamo chiamarla, si è tuttavia da sempre accompagnata un’inconciliabile gemella di ignoto ascendente, vale a dire una memoria a breve termine per le cose più rilevanti o le ovvietà, di norma dovuta a mera distrazione. Se da un lato ricordo perfettamente il cardigan rosso con due strisce bianche attorno ai bottoni, che indossavo il mio primo giorno di scuola sopra al grembiule, dall’altro non ho la minima idea di dove si sia nascosto il burrocacao che ho adoperato la bellezza di cinque minuti fa (perché sono sempre gli oggetti a celarsi da noi, si intende). Se da un canto ricordo a memoria i primi 24 versi del primo canto dell’Inferno dantesco, studiati in prima media, e la ridicola filastrocca americana che mi insegnò mia cugina quando avevo sette anni, dall’altro non ricordo minimamente la data di inizio del secondo conflitto mondiale, iniettatami continuamente negli anni scolastici e quotidianamente in quelli universitari, né tantomeno la raccomandazione telefonica di mia madre di pochi secondi fa. Inutile precisare, alla luce di ciò, il mio consueto abuso della funzione “promemoria” del cellulare. God bless technology, non lo dirò mai abbastanza.
Alla discutibile utilità del rammentare senza riserve la scritta in strass stampata sulla maglietta che sfoggiavi la sera di capodanno nel 2002 ma non ciò che indossavi ieri, si accompagna un ulteriore mirabolante elemento: la radicata difficoltà di registrare un volto nuovo.
Avendo in questi anni constatato, con copioso conforto, come il suddetto sia un problema particolarmente diffuso, ho voluto qui riportare la mia esperienza affinchè funga da exemplum a coloro che patiscono le medesime pene ivi esplicate, ma soprattutto perché in futuro, cari lettori smemorati, possiate sentirvi meno soli nelle vostre figuras minchiae.
Partiamo dal principio; dopo la stretta di mano, il mio cervello attiva automaticamente il pulsante reset, senza tuttavia ritrovare i dati salvati, una volta riavviato il sistema. A meno che non si tratti di un nome straniero o di facile portata mnemonica, la bella Monica, dopo pochi istanti, per me potrebbe tranquillamente chiamarsi Asdrubale.
Parimenti, salvo che abbia già visto più volte un determinato individuo o che abbia qualche peculiare caratteristica in grado di ancorarsi alla mia mente (e non parlo necessariamente di una chioma verde pisello o di un teschio rockabilly tatuato sullo zigomo), ho de sempre ingenti difficoltà nel memorizzare una novella fisionomia. Nonostante il beato facebook abbia in parte attenuato le figur’emmerd facilmente scaturibili dal problema in esame, talune circostanze permangono tuttora inesorabili. Considerando oltretutto che, per qualche ragione, il mio è uno di quei volti che pare rimanga facilmente impresso a buona parte dei miei occasionali interlocutori, vi lascio immaginare come i disguidi in tale ambito tendano, nel mio caso, a moltiplicarsi. Se a ciò aggiungete anche una marcata incapacità di mentire/assumere facce da culo quando necessario, potrete vagamente figurarvi lo spessore dell’imbarazzo sotteso alle situazioni di cui sovente la sottoscritta si ritrova protagonista. Lo stesso non si può certamente dire di mio padre, gene responsabile del mio connotato anzidetto, che una volta ho visto salutare un cordiale messere venutogli incontro con reiterati “carissimo! Tutto bene? La famiglia come sta?”, abbandonandosi a dieci abbondanti minuti di animata conversazione, per poi voltarsi verso di me e domandare sottovoce, una volta effettuati i congedi: “Shirin, ma…chi cazzo era?”


Tutti noi, almeno una volta, siamo stati erroneamente etichettati come maleducati per non aver rivolto il saluto a soggetti che ignoravamo totalmente di aver conosciuto in qualche precedente occasione, o per non aver risposto a quello a noi offerto da questi ultimi, ignari del fatto di esserne i destinatari. Analogamente siamo stati talvolta richiamati da esplicite apostrofi, cui normalmente, dopo il saluto di risposta, seguito da un’inequivocabile espressione perplessa, il nostro conoscente sconosciuto ci ha dischiuso la propria identità. Del tipo: 
- Sai sono Carlo, l’amico di Marco, ci siamo conosciuti tre mesi fa al compleanno di Antonio, ti ricordi?
Al che tenti in ogni modo di reprimere un istintivo: “Figlio mio, non ricordo neanche che ho mangiato ieri a cena, figurati chi ha attaccato bottone novanta giorni fa”, limitandoti ad un’osservazione sulle tue scarse virtù fisionomiste.
Fino a pochi anni orsono credevo di essere io quella messa male, ma debbo ringraziare il Cielo per avermi concesso di constatare come ci sia sempre, sempre qualcheduno messo peggio.
L’occasione si profilò nel lontano 2007, quando un certo kattivissimo@qualcosa.it (sì esatto, KATTIVISSIMO) mi aggiunse a buffo su messenger, invitandomi, dopo pochi scambi di battute, a scoprire dal vivo, presso la sua dimora, le ragioni del suo nick. Dopo averlo a mia volta invitato a sfogare la propria ferocia in solitudine, ci accomiatammo, ahimè non definitivamente, per poi ritrovarci qualche giorno dopo, in una nuova conversazione virtuale da lui intrapresa, con un copione piuttosto simile al precedente. Dopo avergli fatto notare che quello non fosse disgraziatamente il nostro primo colloquio, il nostro Rocco wannabe di colpo si allarmò, scambiandomi per una fanciulla con cui si era sollazzato qualche sera prima.
- Vorresti dire che io e te…io e te abbiamo…l’altra sera? Ti chiedo scusa…
- No guarda, non…
- Ti chiedo infinitamente scusa, proprio non ricordo.
- Ma guarda che…
- Non è una cosa personale, magari è stato bellissimo, è che non riesco a ricordarmi di tutte. Ricordo un bel momento, un bel corpo, ma le persone con cui l’ho passato proprio no…Poi sai, di notte è ancora più difficile...
- Si ma..
- Se vuoi però posso farmi perdonare. Sono molto bravo in questo…puoi usare manette, frusta, tutto quello che desideri…

A pensarci oggi, avrei dovuto proporre una ghigliottina pubica. Sarà per la prossima volta.