giovedì 13 aprile 2017

I'm not dead


Buonsalve a tutti e, supponendo di non dover tralasciare i formalismi, bentrovati, cari lettori.

Non mi ero minimamente accorta di aver lasciato scorrere tutto questo tempo dal mio ultimo intervento; più di un anno, ora che ci penso. Col senno del poi, la cosa ha una propria ratio, che non voglio condividere pubblicamente, ma che intendo usare come spunto, per dirvi un paio di cose che forse vi faranno comprendere meglio le ragioni della mia duratura assenza.
E’ stato un anno complesso, forse tra i più grevi di cui abbia memoria, ma alla luce di ciò assai istruttivo. Distruttivo ma, conseguentemente, costruttivo. Perdonate l’allitterazione.
Sapete, non sono avvezza a congedare gli anni in procinto di volgere al termine come fanno taluni, evidenziandone i lati negativi, definendoli ogni volta “anno demmerda” e riponendo tutte le proprie speranze in quello a venire. Credo da sempre che anche, anzi, soprattutto i brutti periodi siano quelli più formativi, da cui si possa apprendere meglio; tutto sta nel nostro approccio.
Il dolore è un maestro paziente e silenzioso, che dovremmo imparare a non odiare per le dure, talvolta durissime prove cui ci sottopone, pensando piuttosto agli apprendimenti che potremmo guadagnare dal suo rigido metodo, sovente così arduo a comprendersi. 
Perciò, dopo averlo maledetto a non finire, fermiamoci un attimo a pensare a cosa potremmo apprenderne, poiché - e lo dico per esperienza - una mera attitudine positiva in un frangente tutt’altro che tale può realmente fare la differenza.

Alla luce di tutto ciò, non v’è nulla che rimpianga di quest’anno passato, così colmo di cambiamenti, a cui, dopo un marcato sconcerto iniziale, mi è gradualmente venuto sempre più spontaneo adattarmi. Sapete cosa diceva Bruce Lee, no?

Be formless, shapeless, like water. You put water into a cup, it becomes the cup. You put water into a bottle, it becomes the bottle. You put water into a teapot, it becomes the teapot. Water can flow or it can crash.
Be water, my friend.

Ora, personalmente credo di essere ben lungi dalla malleabilità assoluta di cui parlava Lee, ma posso dire di essere notevolmente soddisfatta dei miei passi in tale direzione. Non so se un’adattabilità così totale sia umanamente auspicabile in toto; quel che so è che io non ho mai desiderato essere priva di forma, seguendo la metafora impiegata dal maestro. Flessibile sì, e anche molto, ma entro qualche limite. Vi sono contenitori di cui non voglio, né ho mai voluto assumere le sembianze; tuttavia, in circostanze peculiari, credo di aver trovato dei validi compromessi in grado di mantenere la mia natura intatta. E auguro a tutti di poter trovare, in tali evenienze, la soluzione più idonea alla propria essenza.


Niente, tutto questo per dirvi che sì, sono viva e, tutto sommato, me la sto passando piuttosto bene. Immersa di lavoro e di faccende, ma decisamente bene.
La prossima volta vedrò di lasciare un po’ più spazio al sarcasmo e meno alle mie intrinseche tendenze filo-confuciane.
A presto, egregi.



lunedì 28 marzo 2016

Cicatrici


Ho sempre scorto un certo fascino nelle cicatrici.

C’è chi le definisce racconti narrati sul corpo, chi tatuaggi con storie più interessanti, e chi ancora ne esorta i detentori a mostrarle con fierezza, in quanto testimoni di una forza superiore rispetto a quella di ciò che ha provato a lederli.
Tutti noi ne abbiamo almeno una, per una ragione o l’altra. Vi sono quelle frutto di vivacità puerili (quali i segni dei copiosi ginocchi sbucciati e degli arti martoriati durante le nostre improbabili imprese, che da bambini mostravamo con sommo orgoglio agli amici), quelle prodotte da incidenti successivi, quelle di natura patologica e quelle figlie di vicende chirurgiche. Vi sono inoltre quelle non accidentali, che taluni si procurano in modo volontario, sovente per avvertire meno un dolore ben più ampio di quello fisico.
Qualunque ne sia l’origine, sono tracce di vita che marchiano ogni individuo sulla faccia della Terra, se pur in maniera differente, e dunque tutti ne abbiamo in qualche modo fatto esperienza.
Ciò che ha da sempre suscitato il mio interesse risiede nella loro natura; esse sono frammenti della nostra storia, dei nostri tormenti e dei nostri dolori, ma più d’ogni altra cosa, le cicatrici ci mostrano, nella maniera più concreta e tangibile al mondo, che non v’è ferita, per quanto profonda e straziante, che non possa rimarginarsi. Naturalmente la zona colpita non sarà mai come prima; permarrà un segno, più o meno evidente, che in un primo periodo potrà dolere al tatto, ma che col passar del tempo diverrà quasi totalmente indolore. Tuttavia essa rimarrà là, affinchè il suo detentore non si scordi mai della sua esistenza e di come se l’è procurata, quasi un monito lì a dire “stavolta hai fatto di testa tua, ma vedi di non riprovarci”, ma anche un rinnovato tratto, un novello attributo del nostro animo, poichè è con l’esperienza ch’esso si adorna, mesta o ridente che sia.
Anch’io, come tutti, ne ho qualcuna, in buona parte dovute alla mia spregiudicatezza infantile, ma non solo. Quella a cui sono più legata la ho sul viso, sotto il sopracciglio destro. E’ un piccolo taglio incolore, ormai praticamente invisibile. Da quando si è riassestata, quasi nessuno si è mai accorto della sua presenza, ma io la vedo. La guardo tutti i giorni; la mattina, quando mi lavo il viso, e la sera, quando lo strucco, e ogni volta le dedico qualche secondo. Ricordo il solco largo e profondo che era due anni fa, prima che il medico ne ricongiungesse abilmente i lembi, rammento il lancinante dolore che mi procurò, fisico quanto emotivo. Ricordo il mio sconcerto la prima volta che mi guardai allo specchio, poco dopo aver ripreso conoscenza, così come le mani tremolanti con cui tentavo di ripulire il sangue che mi copriva larga parte del volto.
Ricordo tutto ciò che è stato e osservo tutto ciò che v’è ora. Laddove un tempo vi era uno sfregio profondo, ora non c’è altro che un minuscolo segmento a stento visibile, ed è proprio questo il punto. La sera in cui me la procurai, passeggiavo beatamente in soggiorno, totalmente ignara del fatto che in pochi secondi avrei repentinamente perso i sensi, ritrovandomi al mio risveglio seduta contro il muro, con mezzo viso tinteggiato di porpora. Alla stessa maniera, spesso i tormenti più grevi fanno ingresso bruscamente nella nostra quotidianità, senza pietà o preavviso, lasciandoci smarriti e soggiogati dal fardello degli eventi. Tuttavia non vi è sferzata, per quanto dilaniante, che non possa essere curata, se pur con ingenti, assai ingenti dosi di forza e pazienza. In seguito, una volta riassestate, ne conserveremo le rigorose impronte e le sfoggeremo senza vergogna; sono le nostre ferite di guerra, quelle battaglie che tutti noi siamo destinati a combattere, una guerra da cui saremo usciti vincitori e di cui mostreremo orgogliosamente i segni, quelli che plasmano la nostra essenza, rendendola compiutamente ma anche splendidamente imperfetta.


V’è una pratica assai singolare in Giappone, e a mio parere parimenti affascinante, che descrive appieno tale filosofia. Si tratta del kintsugi, letteralmente “riparare con l’oro”, consistente nel riassemblare i pezzi di un oggetto andato in frantumi, di norma in ceramica, con oro o argento liquido (talvolta con lacca e polvere d’oro), con lo scopo di ripararlo, accrescendone al contempo pregio e bellezza. La ratio alla base di tale prassi alberga nell’idea tipicamente orientale secondo cui il dolore, in quanto parte inevitabile della vita, non debba essere celato o represso, bensì vissuto in tutta la sua pienezza. Analogamente, le spaccature degli oggetti in esame non andranno occultate, bensì accentuate e valorizzate, poichè contribuiscono a denotarne l’unicità e la magnificenza. In altre parole, secondo tale pensiero, i mali e le ferite non deturpano il nostro animo, ma ne divengono parte integrante, connotandone la peculiarità, in quanto tappe della sua storia. Ben lungi dall’intaccarne lo splendore, le cicatrici che alle volte ci lascia la sofferenza racchiudono un significato, la cui accettazione può generare una forma assai più elevata di bellezza, quella di un animo rigenerato e meravigliosamente autentico nelle sue imperfezioni.

Afferro dunque questo saldo filo conduttore, nel lanciarvi la mia assai sentita apostrofe; non temete il dolore, poichè da esso non si può che apprendere, e non rinunciate mai a un progetto o un’idea che vi stia profondamente a cuore per l’umano timore di procurarvene una dose. Vi è sempre un’alta probabilità di pungerci nel tentare di cogliere la nostra rosa prediletta, ma vi sono rischi che vale perennemente la pena correre. Valutate attentamente e affrontateli, se da ciò dipendono la vostra felicità e integrità emotiva. E qualora doveste squarciarvi, non celate le vostre lacerazioni; per dirla nei termini di Marina Abramović, “alle persone piace creare la migliore immagine di sè stessi e poi nascondere lo schifo, ma la mia idea è di esporre tutto. L’essere umano deve essere onesto in merito a sè stesso e agli altri. Va bene non essere perfetti. Va bene che tutti noi abbiamo problemi. Va bene piangere, mostrare le emozioni.
La mia non è un’esortazione a mostrarsi agli altri, ma a noi stessi, gli unici spettatori che non potremo mai ingannare. Impariamo a scoprire le nostre cicatrici, impariamo ad accettarle, ma sopra ogni cosa impariamo ad amarle, al pari delle nostre virtù, se non maggiormente, chè ciascun taglio è una lezione che porteremo sempre addosso, nonchè un'indissolubile parte di noi.  

Vi accomiato con un disarmante lavoro del fotografo Daniele Deriu, in cui sono casualmente inciampata tempo fa, il cui nome, "Scars of life", ne esplica chiaramente il fulcro (https://www.facebook.com/media/set/?set=a.1783448565215390.1073741835.1780122035548043&type=3&pnref=story). Questi scatti mostrano magistralmente quanto affermato dallo stesso Deriu, e che io mi accingo ampiamente ad abbracciare: dall'inferno si può tornare. Eccome se si può.

venerdì 29 gennaio 2016

Sticazzi


Buongiorno cari lettori.

Vi starete lecitamente domandando le ragioni di tale titolo, non particolarmente aulico. Ebbene, si da il caso che nell'ampia gamma delle espressioni scurrili che la lingua italiana ha da offrirci, "sticazzi" sia quella di cui faccio forse più frequentemente abuso. Sì, sticazzi, inteso nel senso romanesco originario del termine, trattandosi di un'enantiosemia.
Sticazzi significa chisseneimporta, significa carenza di interesse, o magari implica la volontà di cessare di nutrire un interesse portato avanti troppo a lungo, ma privo di un lieto fine. Significa "pace, non è andata come avrei voluto, ma la vita va avanti". Proprio così, la vita va avanti. Sovente non come avremmo immaginato o come ci saremmo auspicati, ma vi sono circostanze da noi indipendenti, in cui la nostra volontà perde qualsiasi rilevanza. La perde sul corso degli eventi, non sul nostro modo di approcciarci agli stessi. Ed è allora che è inutile piangersi addosso, maledire il Cielo o il fato, e buttarci a terra. E qualora siate momentaneamente caduti sotto il peso degli eventi, prendetevi il tempo che vi occorre e tornate nuovamente in piedi. Dopodichè dite quelle otto preziose lettere che racchiudono tutta la consapevolezza del mondo: sticazzi! E credeteci a fondo mentre le intonate, abbracciate tale consapevolezza. Quella che stavolta è andata così, ma ce ne sarà una prossima. La prima di una lunga serie, fatta di alti e bassi, che rendono la vita un romanzo dall'intreccio senza pari. Vivetela, perchè pare sia una sola, e scrivetela senza timori. E se un capitolo dovesse risultarvi doloroso, rammentate sempre che ve ne è un altro a seguire.
Questa cosa non è andata in porto, nonostante i miei sovrumani sforzi? Che rabbia, che nervi, che diamine, ma alla fine, una volta sfogate ira e insoddisfazione, arriviamo sempre lì: va beh oh, sticazzi. Questa opportunità spettava a me, mi sono fatto in quattro, ma è finita nelle mani di qualcun altro? Sticazzi. Quel caro amico non vuole più parlarmi, pur avendo io fatto di tutto per salvare il rapporto? Sticazzi. Quella persona doveva stare con me, e invece ha preferito un'altra/un altro? Sticazzi.
Sticazzi, figli miei, sti grandissimi cazzi. Laddove nulla possono le nostre azioni, tutto può il nostro stato d'animo. E imparare a vivere sereni è una delle più immense lezioni di amor proprio che si possano apprendere. 
Dal momento che a nessuno è dato frenare una tempesta, per dirla con la metafora tanto cara a Gandhi, impariamo a danzare sotto la pioggia. Crogiolarsi temporaneamente nel dolore è umano, così come lo è esserne alle volte sopraffatti, ma lasciate che tali frangenti abbiano carattere transitorio. Se volete bruciare, fatelo solo per risorgere dalle vostre ceneri.
Non siamo noi, ahimè, a stabilire la durata di certe fasi, ma siamo senza dubbio in grado di renderle più tollerabili.

Chi mi conosce a fondo sa bene quanto sia improbabile per me, il più delle volte, nascondere i miei stati d'animo, che divengono dunque facilmente evidenti a chi mi sta dinanzi, pur senza che io ne faccia parola. Alla luce di ciò, non essendo molto abile nel mascherare i miei turbamenti, ho deciso di far mio un consiglio dispensatomi anni fa da un'anima assai prossima alla mia: sorridere, sorridere nel dolore. Se non si può camuffare l'angoscia, tanto vale combatterla a viso scoperto, e non con un'arma qualsiasi, ma con la più antitetica immaginabile: il sorriso. Quello che talvolta è così difficile da trovare, quello che sotto certi fardelli dimentichiamo di possedere e di essere sempre in grado di sfoggiare. E anzi, più grave è tale peso, più sfacciatamente dovremmo guardarlo ridenti, poichè a volte, assai copiose volte, le lacrime non bastano.
V'è una scena, una delle più celebri della storia del cinema, che rappresenta in maniera eccelsa ciò che tanto mi preme dirvi. Si tratta della sequenza di chiusura di Tempi moderni, del divino Chaplin (per chi non avesse mai avuto il piacere di vedere quest’opera d’arte, può rimediare qui: https://www.youtube.com/watch?v=Ps6ck1ejoAw ). E' quella in cui Charlot e la sua compagna d'avventure, in seguito a mille peripezie, dopo aver finalmente raggiunto la vetta delle proprie aspettative ed essere caduti bruscamente a terra, si ritrovano sul ciglio di una strada, senza più nulla, nè un soldo, nè un briciolo di speranza. Improvvisamente la fanciulla, colta dallo sconforto, scoppia in lacrime, domandando al proprio partner che senso abbia continuare a provarci. E lì il vagabondo, pur condividendo la medesima condizione, le afferra il braccio, esortandola a non perdersi d'animo e rassicurandola col suo contagioso entusiasmo. Dopo aver guadagnato la sua convinzione, egli balza nuovamente in piedi aiutandola a fare altrettanto e rimettendosi immediatamente in carreggiata, diretti verso nuove, illimitate mete. Ma prima di intraprendere il cammino, Charlot si volta verso di lei e fa quel gesto essenziale, che racchiude tutta la sua imperitura filosofia di vita; sorride a pieni denti, invitandola ad emularlo. E così sorridono assieme, ai propri fallimenti, al proprio timore ma anche al proprio inesplorato futuro. Solo allora, una volta indossata la propria fulgida fiducia nello stesso, procedono determinati, mano nella mano, alla volta di quest’ultimo, accompagnati dalle immortali note di Smile, scritta e composta nel ’36 dallo stesso Chaplin, nonchè pezzo con cui serbo un legame particolare.


E’ dunque con una delle strofe a me più care della stessa che vi congedo, augurandovi di trovare sempre, in qualche ignota parte di voi, la volontà di fare esattamente ciò che suggerisce il verso principale: sorridere nonostante ci dolga il cuore.

"Smile though your heart is aching,
 smile even though it's breaking,
 when there are clouds in the sky,
 you'll get by,
 if you smile through your fear and sorrow
 smile and maybe tomorrow
 you'll find that life is still worthwhile
 if you just smile".

lunedì 12 ottobre 2015

Ascell n°5


Non credo potrei intraprendere tale intervento con un incipit, o meglio, un’apostrofe differente dalla seguente: ragà, vi prego, vi supplico, PER PIACERE, LAVATEVI LE ASCELLE.
Taluni tendono a sottovalutare l’entità di tale fenomeno, ma è nostro comune dovere porvi l’accento, non solo per il benessere dei soggetti poco avvezzi all’impiego del sapone, ma anche e soprattutto per salvaguardare l’aspettativa di vita di coloro che questi ultimi circondano.
Tutti noi patiamo gli attuali sbalzi delle temperature, ma ciò non implica la necessità di far sobbalzare anche l’olfatto di chi vi sta accanto, ogniqualvolta fate ingresso in un loco. Al di là del naso sensibile di determinati individui, sovente di ciò accusati, v’è una soglia, cordiali lettori avversi all’igiene, al di là della quale sareste suscettibili di denuncia ex art. 56 del codice penale (per chi non lo sapesse, relativo al delitto tentato), alle volte sfociabile in omicidio colposo, quando ci allietate con la vostra soave presenza in luoghi chiusi. Metro, treni e sale d’attesa possono talvolta divenire letali, ma mai la nostra incolumità è messa a repentaglio come quando un individuo ostile al bagnoschiuma ci si apposta accanto in ascensore. Potrete entrare in simbiosi con le pareti dello stesso quanto vorrete, nel disperato tentativo di catturare le ultime molecole di ossigeno sottrattesi alla contaminazione, ma qualora il suddetto dovesse essere minuto come quello del mio condominio, è suggeribile cominciare a pensare ai destinatari del proprio testamento.
La domanda che mi sorge spontaneamente, ogni sacrosanta volta che il mio spirito di autoconservazione mi spinge ad andare in apnea, onde sfuggire al tanfo del gentiluomo o della gentildonna malauguratamente adagiatasi di fianco a me, è sempre la stessa: ma lo sa o non lo sa?   
Lo sa o non lo sa che il suo mero passaggio aumenta veriginosamente il rischio di soffocamento del 90% dei soggetti ad egli/ella circostanti? Lo sa o non lo sa di sfiorare il fetore di una pantegana morta in decomposizione? Sa o non sa di violentare ripetutamente e cruentemente il mio olfatto e quello altrui, ad ogni passo che compie verso la nostra direzione? Sa o non sa di essere una potenziale arma di distruzione di massa? Lo sa o non lo sa? E in caso negativo, come fottutissimamente può non saperlo, per Dio? Come? COME??



Perdonate il mio momentaneo turpiloquio inverecondo, egregi lettori dai nasi insensibili; non volevo mancarvi di rispetto. Proviamo a metterla in altri termini.
Esistono due simpatici elementi, gentili amici, due amichevoli composti chiamati sapone e deodorante. Non costano molto, nè i medesimi, nè il loro utilizzo, ma donano molto a chi li riceve. Parimenti, il mancato impiego degli stessi toglie molto a chi vi circonda: benessere e anni di vita, solo per citarne un paio. Prestate attenzione, tuttavia!
Mentre è possibile fare a meno del nostro benamato deodorante, di cui talvolta per allergie o problemi vari non è dato avvalersi, laddove un sacro vincolo di fedeltà ci unisca al pulcro sapone, impegnandoci ad accoglierlo nella nostra quotidianità almeno una volta al giorno, GIAMMAI sarà valido il meccanismo opposto. A differenza di quanto molti di voi ingenuamente pensano, applicare il deodorante su un’ascella sudicia non ne copre l’odore; finisce bensì annientato dal medesimo, creando un raccapricciante cocktail che rischia di annientare anche i cristiani che vi stanno attorno. Parallelamente, farvi il bagno nel dopobarba o coprirvi di fragranze, per quanto pregiate, senza nondimeno porre prima in essere l’igienica condicio sine qua non, è totalmente irrilevante. Irrilevante per voi, fatale per noi sventurati dal destino infausto. 
Non so cosa vi abbiano detto i vostri ascendenti in età puerile, ma il profumo NON è un surrogato del sapone. Dunque, qualora puzzaste come una stalla, immergervi fino al collo in una boccetta di Gucci Flora non vi renderà un prato di magnolie in fiore, bensì un gregge di capre maremmane rotolatesi gioiosamente in un prato di magnolie in fiore. Che poi, fatemelo dire, anche i cleanliness addicted intenti ad intingere ogni singolo indumento in una vasca di profumo sfiorano le soglie dell’intollerabilità, specie se il profumo in questione presenta note incantevoli per chi lo indossa, ma virulente e insostenibili per il resto del mondo (vi prego, ditemi che non sono l’unica a non reggere Hypnotic poison di Dior, VI PREGO).

Tornando a noi, sovente ho sentito individui dall’ascella esuberante appellarsi alla scusa del caldo, che a detta loro sarebbe il principale responsabile del tanfo sub-ascellare estivo. Potremmo celermente obiettare che le alte temperature siano causa primaria del sudore, non certo del suo fetore, conseguente ad una permanenza a lungo termine dello stesso, dovuta all’ignoranza (nel senso di ignorare di avere uno scarico portuale sotto al braccio) o all’ottimismo di chi se ne fa portatore. Taluni solgono alzare la braccia al cielo nella speranza che la tramontana di passaggio prosciughi il sudore ivi depositatosi (nella migliore delle ipotesi) nelle 48 ore precedenti; a costoro vorrei garantire che l’aroma di cui sono impregnate, ahimè, permane, e si aggrappa impavida alle narici di noi vittime innocenti.
Ad ogni modo, magari, oserei aggiungere, si trattasse d’un problema meramente estivo. L’ascella rigogliosa non conosce stagioni; le abbraccia tutte alla stessa maniera.
Poichè, per quanto nei mesi rigidi essa possa celarsi sotto golf, felpe e indumenti lanosi, verrà sempre QUEL momento, quello che noi comuni mortali da sempre temiamo, quello di cui prima o poi tutti diverremo inesorabilmente protagonisti impotenti: quello in cui il/la nostro/a poco igienico/a amico/a SI TOGLIERA’ IL MAGLIONE, vuoi perchè nel locale in cui siete appena entrati v’è una forte escursione termica rispetto al freddo glaciale esterno, vuoi perchè l’individuo in esame cova un incoscio desiderio di attentare alla tua incolumità. Mentre nel caso di un amico fidato si dispone della confidenza necessaria per sussurrargli all’orecchio “fratè, se non vai un secondo in bagno a pulirti l’ascella, presto dovrai pulire il mio cadavere”, le cose tendono a divenire più complesse, allorchè dovesse trattarsi di un perfetto sconosciuto. E’ lì che dobbiamo appellarci a tutta la nostra forza interiore. 
In un primo momento cercheremo tutti di accostare di soppiatto il naso alla nostra manica a cadenze regolari, onde inspirare quelle scarse dosi di ossigeno senza rischiare una sincope, apostrofando di tanto in tanto l’Onnipotente, che anche gli atei cominceranno ad invocare, esortandolo a condurre lungi da noi la causa dei nostri mali, essendovi ahimè circostanze in cui non ci è dato spostarci altrove. In un secondo e probabilmente ultimo momento, ci limiteremo a pregarlo di freddare quest’ultimo o, in alternativa, noi medesimi.
Dal momento che domani dovrò recarmi più volte in svariati luoghi chiusi, in compagnia d’un considerevole numero di ignoti, ben conscia del fatto che “del doman non c’è certezza”, ci tenevo a dirvi che vi voglio bene e ve ne ho voluto assai.
Per sempre vostra,

S.

venerdì 26 giugno 2015

Story of a never ending love


Salve, cari lettori!!!

Finalmente, dopo eoni di astinenza, causa clausura pre-tesi, conseguente decesso di vita sociale, euforia post-lauream e faccende varie, torno a scrivere, e con immensa gioia. Quando parlo di astinenza non la intendo in senso figurato, poichè impugnare penna o tastiera per ragioni extra-accademiche è per me una reale dipendenza, e starne lontana per più di un determinato periodo mi suscita un’effettiva crisi.
Molti eventi si sono susseguiti in tale lasso di tempo, molte cose sono accadute e molte ancora sono in corso di svolgimento. Sono stati mesi impegnativi, ma è finalmente col sorriso che posso affacciarmi a quelli alle porte, e accoglierli con una rinnovata e inedita consapevolezza.
Fatto questo preambolo, a mio parere doveroso, veniamo a noi.
Quello che farò oggi sarà un intervento particolarmente sentito, poichè andrà a toccare un tema a me profondamente, assai profondamente a cuore. Una della nozioni principali concernenti la sottoscritta, di cui la gente, amici e non, è primariamente a conoscenza è la mia radicata passione per una delle figure più fulgide del panorama musicale del nostro secolo: Michael Joseph Jackson. Parimenti, una delle domande che mi sono state rivolte più di frequente riguarda le ragioni alla base di tale amore, intatto ormai dalla bellezza di 23 anni. Quest’oggi, in occasione del sesto anniversario del suo congedo dalla vita, vorrei rispondere per la prima volta a tale quesito, premettendo che qualunque cosa possa narrarvi in questo minuto spazio virtuale sarà sempre, incredibilmente riduttiva.
La verità è che la figura di Michael è sempre stata presente nella mia vita, al punto che non ricordo neppure la prima volta che lo vidi, essendo la sua immagine impressa nella mia mente sin da quando ho memoria. Il ricordo più remoto che ne posseggo risale ai miei tre anni, ma so per certo non essere il primo. Ricordo i suoi lunghi capelli neri, all’epoca laccati e riccioluti, i suoi penetranti occhi scuri, i cerotti bianchi che portava alle dita, il cinturone argentato, i pantaloni e la giacca in latex che indossava sul video di Come together, così come la camicia gialla che si strappava nel corso della canzone, togliendomi già allora qualsiasi dubbio sulla mia eterosessualità (qualora non aveste mai visto il video in esame, vi consiglio fortemente di rimediare: https://www.youtube.com/watch?v=WSnORyfmHnM ).
Pur non rammentando il momento preciso del nostro primo “incontro”, so con altrettanta certezza che fu un colpo di fulmine, poichè ho sempre, da sempre, associato alla sua immagine i medesimi sentimenti che mi accompagnarono negli anni a venire. Non erano solo il suo disarmante modo di danzare, la sua singolare voce e le sue travolgenti note, pur essendo la sua arte specchio fedele del suo animo; c’era qualcosa in lui, nell’essere umano celato dietro all’artista, che mi attirava come mai fece nessun altro. Provavo un continuo senso di stupore nell’osservarlo, un misto di meraviglia e ammirazione, nonchè una curiosa familiarità di cui non comprendevo le ragioni. Era diverso, nel senso più incantevole del termine, diverso da chiunque avessi e avrei mai visto, e questo, come le persone fuori dal comune in genere, quelle che i più disprezzano e non comprendono, era per me una calamita senza pari.
Rammento nitidamente le continue delucidazioni che molti adulti amavano fornirmi: “guarda che Michael Jackson non è normale. Dorme in una camera ad ossigeno per non invecchiare” “lo sapevi che ha paura dei germi e non si fa toccare da nessuno?”; “lo sapevi che si è rifatto tutto il viso? Vuole somigliare a una donna”; “lo sapevi che è razzista? Prima era nero, poi si è fatto sbiancare”; “Michael Jackson è molto cattivo coi bambini. Guarda che è stato pure denunciato”, e via dicendo a oltranza. Pur non essendo all’epoca a conoscenza dell’effettiva realtà dei fatti, nessuna delle suddette affermazioni sembrava tangermi in alcun modo. Non v’era alcuna tra tali idiozie, spacciate per informazioni, che riuscissi ad associare a lui, neppure quella apparentemente più evidente, relativa al suo cambiamento cromatico. Ero sicura che vi fosse qualcos’altro, ragioni differenti, assai lungi dalle teorie che mi propinavano, e non mi sorpresi nell’apprendere, negli anni successivi, di non essermi minimamente sbagliata.
Ne approfitto a tal proposito per lanciarvi un’apostrofe: non prendete per oro colato tutto ciò che sentite o vedete in prima pagina; leggete, cercate, documentatevi, SEMPRE. Solo la sete di conoscenza ci consente di assurgere alla medesima, di qualunque natura essa sia. E non cessate mai di impiegare le vostre facoltà di giudizio; esse sono e saranno sempre diverse rispetto a quelle altrui, come ciascuno di noi lo è dagli altri. Dunque non assimilate passivamente la prospettiva di terzi; cercate continuamente di sviluppare la vostra. Chiusa parentesi.


Non mi interessava l’opinione altrui. Ai miei occhi, era l’uomo più incredibile che avessi mai visto. Più lo guardavo, più mi domandavo perchè gli altri non riuscissero a vederlo come lo vedevo io.
Ricordo gli attributi che facevo crescere a mia madre, nel domandarle quotidianamente di fare le trecce ai miei capelli allora a spaghetto, nell’ardente speranza di renderli simili alla chioma riccia di Michael, speranza di norma dissipatasi nel giro di un’ora, tempo che usualmente le mie precarie ciocche ‘80s impiegavano a tornare al proprio consueto piattume. Ricordo lo scialle nero che solevo arrotolarmi attorno al braccio, nel convintissimo tentativo di farlo somigliare ad un guanto del Bad tour, così come la camicia bianca e i pantaloni scuri con due strisce bianche di lato che convinsi madre ad acquistarmi, con cui giravo gasatissima per casa ogniqualvolta mi sparavo Dirty Diana o la videocassetta di Moonwalker, originariamente prestatami da mio zio, ma presto divenuta di mia proprietà per usucapione. Ricordo il fiero senso di onnipotenza che mi pervadeva nell’essere puntualmente proclamata vincitrice delle puerili gare di somiglianza che indicevo coi miei compagni d’infanzia, a cui avevo trasmesso il morbo, per il mero fatto di essere l’unico soggetto alto, magro e coi capelli lunghi e corvini. Suppongo fossi l’unica bambina al mondo che, anzichè desiderare di essere una principessa Disney, desiderava somigliare ad un uomo. Ricordo la falsissima spavalderia con cui, quella solitaria sera del ’95, mandai indietro il video di Thriller per guardarlo una seconda volta, cercando di esorcizzare il fatto di essermi cagata in mano dopo alla prima visione e finendo per peggiorare ulteriormente la situazione. Ricordo i lividi con cui mi maculavo arti e gambe, nel cercare di emularne le coreografie, al pari del senso di figaggine che mi travolse la prima volta che riuscii a fare il moonwalk e, poco dopo, il sidewalk. Ricordo le infinite volte che impallai il video registratore, a forza di stoppare e mandare indietro le immagini, con l’intento di memorizzare minuziosamente i passi di danza di ogni singolo video ed esibizione, quando anni dopo riuscii ad appropriarmi del dvd di History on film. Ricordo inoltre l’angoscia che mi pervase nel ’97, al termine del video di Ghosts, credendo che Michael fosse perito davvero; quando lo vidi sbucare fuori poco dopo, pensai a come mi sarei sentita il giorno in cui sarebbe venuto a mancare realmente. Spero di non saperlo mai, pensai quella sera.
Fu in tale periodo, mentre un giorno tessevo amorevolmente le lodi di Michael durante uno dei suoi short films, che mia madre mi folgorò con la sua stupefacente osservazione:
- Sai Shirin, in realtà io e te lo abbiamo incrociato, Michael Jackson. Due anni fa, quando eravamo in macchina cogli zii a Los Angeles. Una lunghissima limousine nera si fermò casualmente accanto a noi ad un semaforo, quando qualcuno  abbassò leggermente il finestrino dal sedile posteriore. Era lui! Tutti quanti lo salutammo come dei forsennati e poco dopo ci salutò anche lui da dietro gli occhiali da sole, prima che il semaforo diventasse verde e ripartisse. Tu purtroppo dormivi e, nonostante ti abbia chiamata più volte, non ti sei svegliata.

Per qualche secondo rischiai una sincope. Impiegai qualche istante, prima di trovare la lucidità per rispondere.

- …Mi stai prendendo in giro?
- No amore, giuro! Lo abbiamo pure seguito, sai? Abbiamo fatto il giro da fuori di tutta casa sua. Mamma mia, quanto era grande! Sembrava una città. Poi siamo tornati a casa.
- Ma non potevi tirarmi un ceffone????
- Shir, ti ho chiamata un sacco di volte! Dormivi tutta beata, non sembravi molto interessata.  

Non potevo crederci. L’uomo su cui fantasticavo ogni singolo giorno della mia breve esistenza era passato accanto a me. Michael mi era passato davanti, ed io dormivo, come una perfetta deficiente. Dormivo, nel momento più fottutamente importante della mia vita, che non avrei mai più avuto indietro. Quel giorno, dopo essermi maledetta all’infinito, cercai di vedere il lato positivo della faccenda, ossia che anche qualora lo avessi visto, non sarei stata in grado di proferire un’acca. In quel momento presi dunque un’impegno: promisi a me stessa che avrei imparato l’inglese alla perfezione, a qualsiasi costo, affinchè alla prossima occasione potessi esprimermi dinanzi a Michael nel migliore dei modi, senza problemi e senza alcuna barriera linguistica.
Contro ogni più assurda previsione, Michael morì dodici anni dopo, poche settimane prima che potessi recarmi a Londra a coronare il mio sogno, ma io mantenni la mia promessa. Ascoltavo e traducevo quotidianamente canzoni e interviste col vocabolario di fianco, guardavo video e discorsi di premiazione ad oltranza, con lo scopo di arrivare a carpirne contenuto, accenti, cadenze e battute. Durante il quadriennio del processo (2003-2006), scaricavo regolarmente articoli e documenti processuali puntualmente indisponibili in lingua italiana, passando interi pomeriggi a tentare di tradurli parola per parola, senza alcun ausilio esterno, non avendo quasi mai disposto di docenti particolarmente competenti in materia. Nel giro di alcuni anni, giunsi a comprendere appieno, senza alcuna consultazione, il 90% di ciò che mi accingevo a leggere o ascoltare. Ho sostanzialmente imparato, grazie a Michael, un’intera lingua in completa autonomia, ed è esclusivamente a questo che devo la mia partecipazione ai vari progetti che hanno colmato questo mio ultimo anno accademico.


Nel corso della mia prima adolescenza accantonai la mia passione temporaneamente, per poi riappropriarmene durante i miei 13 anni, stavolta a tempo indeterminato. Se da bambina era del suo lato “surreale” che mi ero invaghita, dell’entertainer sorprendente e abbacinante, della figura brillante e singolare, poi fu dei suoi caratteri tipicamente umani, quelli che cominciai gradualmente a conoscere, che mi innamorai. Scoprii un uomo timido e insicuro, ma al contempo un lavoratore zelante e lungimirante, un uomo profondamente intelligente, eppure incredibilmente ingenuo. Scoprii un uomo segnato dai propri traumi e trafitto dalla perfidia altrui, eppure colmo di speranza e filantropia. Un uomo circondato di persone, eppure incredibilmente solo. Scoprii la sua abbagliante forza di volontà, la regale dignità con cui tollerava a testa alta le sferzate più subdole e meschine. Scoprii il coraggio con cui affrontava i dolori più lancinanti, e parimenti la sua fragilità e le sue profonde cicatrici. Scoprii la sua disarmante umiltà, il suo pacato garbo e il rispetto che dispensava a chiunque e qualunque cosa lo circondasse. Scoprii il mesto bambino che si poteva ancora scorgere dietro all’adulto incompleto, che ahimè molti non vedevano, nonchè i suoi disperati tentativi di tutelarlo. Scoprii un uomo la cui ricchezza d’animo superava inestimabilmente quella terrena, di cui non concepiva l’utilità, se non condividendola con chi ne avesse necessità. Scoprii la sua pura spontaneità, il suo sentito senso di gratitudine, il suo umorismo e la sua incessante curiosità. Scoprii la lodevole perseveranza e l’ardore con cui inseguiva i propri sogni, insegnandomi inconsapevolmente a fare altrettanto. Ma più di ogni altra cosa, scoprii la sua incantenvole sensibilità, quella che mai ebbe timore di mostrare al mondo, quella che io per anni avevo tenuto nascosta, non avendo nessuno con cui condividerla. Michael fu il primo. Il primo individuo sulla faccia della Terra a non farmi sentire sola, pur nella concreta lontananza.
A lui devo più di quanto avrei mai potuto immaginare; senza ombra di dubbio, buona parte di ciò che so e di ciò che sono oggi.
Non v’è  termine umano che sappia mai esprimere ciò che quest’uomo è ed è stato per me, nonchè quanto inconcepibilmente abbia cambiato la mia vita. Tuttavia ti prometto, mio dolce, dolcissimo Michael, così come diciassette anni fa feci quella promessa a me medesima, che un giorno troverò il modo di pagare il mio debito. Un dì, assai meno lontano di quanto possa sembrare, giuro che renderò allo straordinario essere umano che sei stato un omaggio degno di tale nome, imperituro come il dono che tu hai fatto a me.

“I’ll never let you part. For you’re always in my heart”.
I love you, I'll always do.

domenica 1 marzo 2015

50 shades of gay


Buondì, cari lettori!

Dopo un periodo piuttosto intenso, finalmente trovo il tempo di impugnare nuovamente la tastiera e di arricchire gli scaffali di questo minuto spazio virtuale. Ho covato a lungo l’intervento di oggi, un po’ per questioni temporali, un po’ al fine di giungere a disporre di tutti gli strumenti necessari alla sua corretta stesura, essendo io dell’opinione che occorre sempre conoscere a fondo ciò di cui ci si accinge a favellare, anche e soprattutto quando si tratta di capienti minchiate.
Credo che la radice dell’ultimo termine, volontariamente impiegato, sia l’idoneo incipit all’argomento di cui ci occuperemo oggi, vale a dire il “fenomeno”  letterario, ahimè ora anche cinematografico, che ormai da qualche anno scuote buona parte del web, nonchè le fantasie di una larga percentuale di esponenti del gentil sesso: 50 sfumature di grigio.
Chiedo anticipatamente venia per le digressioni e i flussi di coscienza a cui spontaneamente mi abbandonerò, talvolta. Ho così tanto da dire a riguardo, che fatico a stabilire un ordine espositivo, lo giuro.
Vediamo di partire dal principio: l’opera nasce dall’impietosa penna di Erika Leonard, alias E.L.James, originariamente come una serie di fan fiction di Twilight, che dunque vedeva come protagonisti i personaggi di tale narrazione, ovvero Edward Cullen e Bella Swan. In breve tempo, sono passata dal domandarmi cosa spingesse una donna di mezza età a spararsi l’intera saga di Twilight (a tal proposito, non trovate curioso come il termine saga ricordi inesorabilmente il termine sega? “Coincidenze? Io non credo”), a carezzare l’ipotesi della promozione di uno studio sociologico su cosa porti esattamente costoro a scrivervi persino fan fiction, come se l’opus magnum della signora Meyer non fosse già di per sè sufficiente. 
Fan fiction. Dio Cristo.
Dopo alle critiche suscitate dal contenuto sessualmente esplicito di tali racconti, mrs. Leonard decise di mutare gli epiteti dei personaggi e di riscrivere la storia dal principio, pubblicandola sul proprio sito, fin quando un provvidenziale giorno decise che cotanto talento dovesse essere condiviso col mondo in forma cartacea.
Una volta sentii un saggio indiano, di cui non rammento il nome, affermare che fosse in grado di avvertire il dolore degli alberi, ogniqualvolta toccava un pezzo di carta; quando terminai l’ultima pagina del romanzo, pensai che tanta cellulosa sacrificata invano gli avrebbe probabilmente procurato un ictus.
Ad ogni modo sì, ho letto il decantato liber, recatomi in dono qualche anno orsono, anche perchè in caso opposto non sarei stata qui a parlarne. Trovo infatti ridicolo, citando quanto ho affermato più volte sul web, giudicare un libro senza averne fatto esperienza, ragion per la quale non pregiudico mai nulla, neppure gli aborti letterari latenti, che attendo di aver letto in prima persona, prima di definire defecate a prescindere. L’unico fenomeno odierno che non sono stata in grado di leggere è Moccia; ci ho provato, ve lo assicuro, ma dopo due pagine emmezzo, appurato di non trovarmi nella sezione bambini, ho dovuto riporlo sullo scaffale e congedarlo a tempo indeterminato.
Tornando a noi, la storia è tra le più celebri e reiterate del panorama letterario: la fanciulla sfigata e impedita, che per qualche ignota ragione attizza l’Alain Delon di turno, bello da far paura e ricco da fare schifo. Nel leggere i primi capitoli, conscia del fatto che ne sarebbe presto scaturita una trasposizione cinematografica, non potei fare a meno di pensare che nessuno avrebbe potuto incarnare il signor Grey meglio di Ian Somerhalder, presto effettivamente inserito nella lista dei candidati alla parte. Sapete, non sono mai stata una grande amante degli uomini dagli occhi chiari, ma vi garantisco che qualora dovessi ritrovare un individuo del genere sulla mia soglia, con un opuscolo tra le mani, potrei seriamente pensare di unirmi a Geova.


Parimenti, ero discretamente favorevole anche all’assunzione del bel Matt Bomer per il tanto conteso ruolo (http://www.sfizioserietv.it/wp-content/uploads/2014/08/matt-bomer.jpg che dire…che dire). Nonostante molti credessero che il suo orientamento sessuale rendesse la sua interpretazione poco credibile, resto dell’opinione che il buon Bomer non si sarebbe fatto molti problemi nel vestire i panni del signor Grey, e di certo non me ne sarei fatta io nel vederlo svestire i propri.
Fatto sta che, al termine dei giochi, il posto sia spettato a Jamie Dornan, gran tocco di figo, per carità, ma a mio parere poco consono alla parte (linciatemi pure, se volete). Quanto ad Anastasia Steele, di cui a dire il vero non mi importava granchè, quest’ultima è invece andata alla giovane Dakota Johnson, della cui esistenza, onestamente, non ero neppure al corrente. Non mi esprimerò sul film, che ho visto in streaming qualche sera fa, e che spero concorderete con me nel ritenere che si commenti da solo. Solo un’osservazione, se mi è concessa, relativa a questioni meramente tecniche; una delle più celebri citazioni del libro è la fine ed alta affermazione di Grey, in cui spiega garbatamente: “Io non faccio l’amore. Io fotto…senza pietà.” (originariamente “I don’t make love. I fuck…hard”). Non è una traduzione letterale, ma ovviamente è quella più consona, che meglio esprime il senso della frase, ed è sovente a queste scelte semantiche che occorre ancorarsi per ottenere lo stesso effetto della versione originale. Mi aspettavo, dunque, le medesime parole in quella cinematografica, se non fosse che di colpo il bel Dornan se ne sia uscito con: “Io scopo…forte.”

GELO.

Ok, ok, fermi tutti.
Lo ha detto sul serio? Lui scopa…forte?
…FORTE??
Un po’ come se traducessi “if I was in your shoes, I would catch the bus earlier” con “se fossi nelle tue scarpe, catturerei l’autobus prima”. Sarò anche una grammar nazi, ma sfiderei ciascuno di voi ad apostrofare la vostra partner, invitandola a “scopare forte”, e a non concludere la vostra serata con un solitario.
Chiusa questa parentesi, passiamo ora al punto successivo: i personaggi.
Non avendo mai nutrito grande simpatia per le figure beote e smidollate, potrete immaginare quale immensa simpatia mi abbia unita, sin dalle prime pagine, a miss Steele. Cominciai con qualche perplessità sul suo quoziente intellettivo, per poi imprecare mentalmente ogni due righe contro le sue azioni prive di fondamento, fino a giungere a sperare fortemente che rimanesse secca durante uno dei giochi tanto cari al signor Grey. Quanto a quest’ultimo, in luogo della sua potenziale sottomessa, prima di farmi scartare gli attributi ventiquattr’ore al giorno, avrei suggerito al minuzioso e meticoloso mr. Controllo di gettare un’occhiata all’art. 612 bis del codice penale, recante la simpatica disciplina degli atti persecutori, per gli amici stalking.
Al di là della discutibile trama, non credo sia necessario soffermarci sullo stile narrativo, nè tantomeno sul mio sconcerto nell’apprendere che l’autrice, le cui doti di stesura avrei attribuito al massimo a una ventenne, fosse prossima ai cinquanta. 
Vorrei piuttosto far notare un dettaglio più volte evidenziato dalla comunità virtuale e perennemente ignorato dai media: QUEL RACCONTO NON HA NULLA DI SADOMASO. Un paio di sculacciate e qualche colpo di frusta non relegano un rapporto nel BDSM, che è ben altro da ciò che gli articoli di Donna moderna e Cosmopolitan amano farvi credere. A connotare un rapporto di tale natura è la consensualità e il fatto che tutti i soggetti coinvolti, dominante (dom) e sottomessa/e/i (sub) traggano piacere dalle pratiche effettuate; non è necessario convincere quest’ultima/o ad essere tale, presentandola ai propri ascendenti dopo due settimane di relazione e comprandole un mac, una macchina e un nuovo guardaroba, dopo una misera chiavata. Che poi avrei voluto vedere se la pia Anastasia si sarebbe fatta legare come un provolone Auricchio, qualora il carismatico e intrigante signor Grey fosse stato un commesso della Subway. 
Come inoltre osservato dal celebre maestro bondage Davide La Greca, “Anastasia ubbidisce per amore. Una cosa del tutto sbagliata. Faccio ciò che mi chiede il dom, mi faccio frustare, marchiare (…), ma solo per tenermelo stretto”; non è questo, invece, che anima i rapporti di tale matrice. L’unico aspetto narrato nel libro effettivamente conforme alla realtà dei fatti è il contratto tra dom e sub, con cui si stabilisce cosa si è e ciò che non si è disposti a fare, la safeword, mediante la quale è possible interrompere il gioco in qualsiasi momento, nonchè che il tutto rientri nella fondamentale formula dell’SSC (Safe, Sane, Consensual).
Nel caso in cui ve lo steste chiedendo, anch’io mi domando quale piacere si provi nell’essere volontariamente seviziati e annodati come una porchetta, ma alla fine de gustibus. D’altronde, come diceva De Sade, “se si ama il proprio dolore, esso diviene voluttà”.

Qualora qualcuno di voi fosse di parere opposto rispetto alla sottoscritta, e avesse dunque apprezzato l'opera della Leonard (per il cui successo sono assai felice a livello umano, ma di certo non professionale) e la relativa rappresentazione visiva, suggerirei il suo degno predecessore cinematografico, Killing me softly, di Chen Kaige. A dire il vero, lo consiglierei anche a tutti gli altri, dal momento che, nonostante l'intreccio tenda a stimolare la diuresi, le scene di sesso sono degne di nota, almeno quanto i nudi, ahimè solo posteriori, di Joseph Fiennes.
Vorrei concludere con un finale ad effetto, ma la verità è che il mio stomaco brontola e il mio baghali polo non si scalderà certo da solo. A tal proposito, vi inviterei a cercare su google di quale meraviglia sto parlando, nel caso in cui non doveste esserne a conoscenza. 

Buon pranzo, egregi.

mercoledì 24 dicembre 2014

Jingle bells


Come ogni anno eccoci qui, immersi nelle festività natalizie, presi a domandarci cosa recare in dono a questo, cosa farcene del consueto presente inutile di quello, come passare il 31, in attesa di qualche svolta dell’ultimo minuto, ma soprattutto come evitare di condurre il già magro portafoglio a sfiorare l’anoressia.
Sovente, in tale periodo dell’anno, buona parte degli individui tende a scindersi in due opposte fazioni. Da un lato abbiamo i grinch, coloro che ripudiano il Natale, o per determinati traumi passati, o per la profonda convinzione priva di fondamento che molti serbano, secondo cui odiare ciò che i più amano contribuisca a corroborare il proprio alone di figaggine, sempre ammesso che taluni ne abbiano mai avuto uno, o semplicemente perché gli sta sulle palle. Ci può stare, dai. Essendo più volte capitato che certi soggetti mi stessero a pelle sulle palle (che splendida allitterazione), non mi sento di condannare chi avverte tale sentore verso un particolare evento dell’anno. Mentre costoro tentano di frenare i propri istinti piromani di fronte a tutti gli abeti decorati che si trovano dinanzi, d’altro canto vi sono i natalofili, alias coloro che darebbero via un rene pur di estendere il periodo natalizio a tutto gennaio, febbraio, marzo, e perché no ad aprile. Il natalofilo intraprende la propria briosa campagna di esultanza il primo dicembre, rievocando la propria maglia in lana tempestata di cuciture a forma di renne e fiocchi di neve, che indosserà fino a febbraio inoltrato, riesumando, come da tradizione, l’albero finto dal garage, addobbato a dovere mentre intona l’immancabile compilation natalizia, saltellando come un’antilope dopata sulle note di Bobby Helms una volta terminato, e cominciando, colmo di letizia, un conto alla rovescia al fatidico 25. Il natalofilo  non offre la propria euforia, LA IMPONE a chi lo circonda, a maggior ragione se il povero malcapitato dovesse appartenere alla prima categoria. L’ipotesi in cui all’interno della medesima famiglia dovessero coesistere membri di entrambi gli ordini è a dir poco spettacolare; ho assistito coi miei stessi occhi alla sognante giocondità di madri intente a maneggiare variopinte palle di Natale, e al parallelo supplizio dei figli, che in religioso silenzio demolivano le proprie.


Quanto alla sottoscritta, definirei la mia di posizione un po’ più equilibrata. Da non cristiana, non ho mai avvertito in alcun modo la spiritualità del Natale, ma è innegabile come sotto le feste l’aria sia impregnata di una palpabile magia, che personalmente adoro. Quindi sì, sono una fan del Noël, pur non girando con un cappellino rosso dal primo al trentuno, con un perenne sorriso da orecchio a orecchio. Mi limito ad assumere tali vesti solo il 25. 
Dopo aver trovato le forze di abbandonare la coperta zebrata in pile ed aver fatto colazione con pandoro e cappuccino, avvio la mia amata playlist natalizia, che di norma fa da sottofondo a buona parte della giornata; Drifters, Brenda Lee, Darlene Love, Elvis Presley e un buon 90% delle colonne sonore di “Mamma ho perso/riperso l’aereo”. A proposito, NON E’ MAI NATALE SENZA MAMMA HO PERSO L’AEREO, non a casa mia. In fin dei conti, tutti noi ci accorgiamo del sopraggiungere del suddetto giorno anche dalla reiterata prassi televisiva di trasmettere le vicende di Kevin McCallister, “Miracolo sulla 34° strada”, “Una poltrona per due” e compagnia bella (ma poi sono l’unica a non aver mai visto “Una poltrona per due”? Quest’anno vorrei rimediare). Ogni volta, oltretutto, le mie radicate speranze che i signori Parenti e Vanzina mi concedano la grazia, astenendosi dall’impugnare la cinepresa, si rivelano vane, ma in cuor mio non demordo.
Come larga parte di voi, anch’io ho effettuato una toccata e fuga alle fiere natalizie (non ai meracatini, tuttavia), quelle in cui ti vendono al doppio del prezzo articoli che potresti tranquillamente ritrovare al mercatino del sabato. Come di consueto, ho tentato di celare al meglio delle mie capacità l’abituale misantropia che mi pervade ogniqualvolta mi ritrovo in un ingorgo dalla durata variabile di 5-10 minuti, causato dal torrente umano tipico di questo genere di eventi, a cui ogni anno mi prometto di non prendere più parte ma a cui puntualmente mi lascio trascinare dall’entusiasmo e da un’immotivata fiducia nel prossimo. Parimenti ho preservato lodevolmente la mia larga pazienza, nel frenare spinte sadiche e istinti omicidi dinanzi alle gentildonne che, come consuetudine, trattenevano alla cassa i negozianti, i cui attributi strusciavano a terra già da un’abbondante mezzora, con i propri indispensabili quesiti, incuranti della chilometrica fila alle proprie spalle, nonché del latente rischio di linciaggio ad opera del signore in andropausa immediatamente successivo, che nell’attesa del proprio turno avrebbe probabilmente potuto redigere una nuova edizione del Decameron. 
Le mie visite alle fiere, nondimeno, non si rivelano mai totalmente inutili; come ogni anno, ho avuto modo di congedare tutta la mia dignità presso gli immancabili stand gastronomici meridionali, abbandonandomi ad orgasmi multipli nell’addentare sublimi e pesantissimi arancini e assurgendo alla wirkliche form hegeliana nel portarmi a casa due buste stracolme di prodotti calabro-pugliesi. Che Dio ti benedica sempre, o divina Terronia.     
Nel chiudere questo intervento, rivolgo i miei più sinceri auguri a voi, cari lettori, perché possiate avere un sereno Santo Natale nella gloria di Jesus se cristiani, e perché possiate abbuffarvi e stare in compagnia come la sottoscritta, se laici. In ogni caso, in questi ultimi dì tra i propositi che usualmente si annoverano per l’anno a venire non dimenticate i più importanti, che sovente vengono sottointesi, eppure lasciati alla dimenticanza: amatevi e siate felici, per quanto alle volte la vita tenti in ogni modo di impedirvelo. Amatevi e siate felici.

With love,
Shirin