mercoledì 24 dicembre 2014

Jingle bells


Come ogni anno eccoci qui, immersi nelle festività natalizie, presi a domandarci cosa recare in dono a questo, cosa farcene del consueto presente inutile di quello, come passare il 31, in attesa di qualche svolta dell’ultimo minuto, ma soprattutto come evitare di condurre il già magro portafoglio a sfiorare l’anoressia.
Sovente, in tale periodo dell’anno, buona parte degli individui tende a scindersi in due opposte fazioni. Da un lato abbiamo i grinch, coloro che ripudiano il Natale, o per determinati traumi passati, o per la profonda convinzione priva di fondamento che molti serbano, secondo cui odiare ciò che i più amano contribuisca a corroborare il proprio alone di figaggine, sempre ammesso che taluni ne abbiano mai avuto uno, o semplicemente perché gli sta sulle palle. Ci può stare, dai. Essendo più volte capitato che certi soggetti mi stessero a pelle sulle palle (che splendida allitterazione), non mi sento di condannare chi avverte tale sentore verso un particolare evento dell’anno. Mentre costoro tentano di frenare i propri istinti piromani di fronte a tutti gli abeti decorati che si trovano dinanzi, d’altro canto vi sono i natalofili, alias coloro che darebbero via un rene pur di estendere il periodo natalizio a tutto gennaio, febbraio, marzo, e perché no ad aprile. Il natalofilo intraprende la propria briosa campagna di esultanza il primo dicembre, rievocando la propria maglia in lana tempestata di cuciture a forma di renne e fiocchi di neve, che indosserà fino a febbraio inoltrato, riesumando, come da tradizione, l’albero finto dal garage, addobbato a dovere mentre intona l’immancabile compilation natalizia, saltellando come un’antilope dopata sulle note di Bobby Helms una volta terminato, e cominciando, colmo di letizia, un conto alla rovescia al fatidico 25. Il natalofilo  non offre la propria euforia, LA IMPONE a chi lo circonda, a maggior ragione se il povero malcapitato dovesse appartenere alla prima categoria. L’ipotesi in cui all’interno della medesima famiglia dovessero coesistere membri di entrambi gli ordini è a dir poco spettacolare; ho assistito coi miei stessi occhi alla sognante giocondità di madri intente a maneggiare variopinte palle di Natale, e al parallelo supplizio dei figli, che in religioso silenzio demolivano le proprie.


Quanto alla sottoscritta, definirei la mia di posizione un po’ più equilibrata. Da non cristiana, non ho mai avvertito in alcun modo la spiritualità del Natale, ma è innegabile come sotto le feste l’aria sia impregnata di una palpabile magia, che personalmente adoro. Quindi sì, sono una fan del Noël, pur non girando con un cappellino rosso dal primo al trentuno, con un perenne sorriso da orecchio a orecchio. Mi limito ad assumere tali vesti solo il 25. 
Dopo aver trovato le forze di abbandonare la coperta zebrata in pile ed aver fatto colazione con pandoro e cappuccino, avvio la mia amata playlist natalizia, che di norma fa da sottofondo a buona parte della giornata; Drifters, Brenda Lee, Darlene Love, Elvis Presley e un buon 90% delle colonne sonore di “Mamma ho perso/riperso l’aereo”. A proposito, NON E’ MAI NATALE SENZA MAMMA HO PERSO L’AEREO, non a casa mia. In fin dei conti, tutti noi ci accorgiamo del sopraggiungere del suddetto giorno anche dalla reiterata prassi televisiva di trasmettere le vicende di Kevin McCallister, “Miracolo sulla 34° strada”, “Una poltrona per due” e compagnia bella (ma poi sono l’unica a non aver mai visto “Una poltrona per due”? Quest’anno vorrei rimediare). Ogni volta, oltretutto, le mie radicate speranze che i signori Parenti e Vanzina mi concedano la grazia, astenendosi dall’impugnare la cinepresa, si rivelano vane, ma in cuor mio non demordo.
Come larga parte di voi, anch’io ho effettuato una toccata e fuga alle fiere natalizie (non ai meracatini, tuttavia), quelle in cui ti vendono al doppio del prezzo articoli che potresti tranquillamente ritrovare al mercatino del sabato. Come di consueto, ho tentato di celare al meglio delle mie capacità l’abituale misantropia che mi pervade ogniqualvolta mi ritrovo in un ingorgo dalla durata variabile di 5-10 minuti, causato dal torrente umano tipico di questo genere di eventi, a cui ogni anno mi prometto di non prendere più parte ma a cui puntualmente mi lascio trascinare dall’entusiasmo e da un’immotivata fiducia nel prossimo. Parimenti ho preservato lodevolmente la mia larga pazienza, nel frenare spinte sadiche e istinti omicidi dinanzi alle gentildonne che, come consuetudine, trattenevano alla cassa i negozianti, i cui attributi strusciavano a terra già da un’abbondante mezzora, con i propri indispensabili quesiti, incuranti della chilometrica fila alle proprie spalle, nonché del latente rischio di linciaggio ad opera del signore in andropausa immediatamente successivo, che nell’attesa del proprio turno avrebbe probabilmente potuto redigere una nuova edizione del Decameron. 
Le mie visite alle fiere, nondimeno, non si rivelano mai totalmente inutili; come ogni anno, ho avuto modo di congedare tutta la mia dignità presso gli immancabili stand gastronomici meridionali, abbandonandomi ad orgasmi multipli nell’addentare sublimi e pesantissimi arancini e assurgendo alla wirkliche form hegeliana nel portarmi a casa due buste stracolme di prodotti calabro-pugliesi. Che Dio ti benedica sempre, o divina Terronia.     
Nel chiudere questo intervento, rivolgo i miei più sinceri auguri a voi, cari lettori, perché possiate avere un sereno Santo Natale nella gloria di Jesus se cristiani, e perché possiate abbuffarvi e stare in compagnia come la sottoscritta, se laici. In ogni caso, in questi ultimi dì tra i propositi che usualmente si annoverano per l’anno a venire non dimenticate i più importanti, che sovente vengono sottointesi, eppure lasciati alla dimenticanza: amatevi e siate felici, per quanto alle volte la vita tenti in ogni modo di impedirvelo. Amatevi e siate felici.

With love,
Shirin


venerdì 12 dicembre 2014

Music and me



Buondì, cari lettori.
Quest’oggi accantonerò occasionalmente il sarcasmo per occuparmi di un tema a me da sempre particolarmente a cuore: la musica, o meglio il mio rapporto con essa. Sovente mi sono sentita domandare quale fosse la causa della mia radicata musicodipendenza, quali i motivi che mi legano così visceralmente alla stessa e per i quali non v’è frammento fra i miei ricordi che sia privo di colonna sonora. Ebbene, per comprendere appieno, suppongo sia necessario partire dal principio.
La ragione per cui ho impiegato l’espressione “da sempre” risiede nel fatto che, sin da quando ho memoria, essa ha svolto un ruolo centrale nella mia vita, prima ancora della scrittura e di tutto ciò che l’ha illuminata negli anni a venire. Poiché prima di apprendere a leggere e scrivere, sono stata istruita a suonare. Taluni potranno stupirsi dinnanzi alla decisione di introdurre una bambina di appena tre anni allo studio di uno strumento musicale; l’origine di ciò potrà esservi più chiara facendo ingresso, assieme a me, nei meandri del cosiddetto metodo Suzuki.
Shinichi Suzuki (1898-1998), violinista giapponese di profondo spessore morale, coniò il metodo nel corso del ‘900 sulla base delle teorie educative pedagogiche di Maria Montessori e Jean Piaget, le quali riponevano ampia fiducia, nonché un forte accento sulle capacità intellettive puerili e sulla necessità di investire sulle stesse. Il sistema di Suzuki partiva da un saldo postulato, totalmente opposto a buona parte delle dottrine precedenti: ogni bambino sulla faccia della Terra nasce con del talento; sarà poi l’ambiente in cui eplicherà la propria esistenza a consentirgli di coltivarlo, e dunque svilupparlo, o meno. Alla luce di ciò, la creazione di un contesto favorevole all’apprendimento è fondamentale, e prima verrà realizzato, più incisivi saranno i suoi effetti.
Suzuki credeva profondamente nella forza educativa e benefica della musica, che essa potesse plasmare nobili individui, osservando inoltre che “le corde non hanno anima, esse vivono attraverso quella di chi le fa vibrare”. Ho sempre una lieve commozione, ogniqualvolta leggo questa frase. Lo scopo del maestro era ben definito: « Voglio creare bravi cittadini. Se un bambino ascolta buona musica dal giorno della sua nascita ed impara a suonarla da solo, allora svilupperà sensibilità, disciplina e pazienza. Ed otterrà uno splendido cuore.» 
Ciò che ad egli premeva non era dunque l'esortazione allo studio, o l'apprendimento della tecnica; si trattava di un'educazione globale.



Differentemente rispetto al metodo tradizionale, in quello tracciato da Suzuki è l'ascolto a precedere l'atto del suonare. Osservando come l'emulazione fosse alla base dei processi di assimilazione dei primi anni di vita, il maestro constatò che così come un bambino apprende l'uso della parola ascoltando e ripetendo continuamente quanto proferito dai genitori, analogamente può appropriarsi del linguaggio musicale, ascoltando e ripetendo una reiterata nota, un ritmo e infine una melodia, propostagli dall'insegnante e replicata dai genitori nel corso della giornata, fino ad un totale assorbimento.
Era esattamente questo il modus operandi della mia insegnante, anch'ella di origine nipponica e piuttosto avanti con l'età. "Io insegno lei, lei insegna Dìrin"- diceva sempre a mia madre. Passava interi pomeriggi a propinarmi gli stessi identici suoni, poi ripetutimi altrettante volte dai miei una volta rincasati, mentre io, nella mia piena vivacità infantile, zompettavo qua e là nella sua graziosa dimora, mutilando tutti i soprammobili a portata di mano. Probabilmente nel rompere quelle splendide statuette in porcellana, le mandavo in frantumi anche i nervi e i coglioni, eppure la signora Murata non perse mai la sua proverbiale pazienza, nemmeno una volta, e parimenti non cessò mai di insegnarmi a svilupparla a mia volta. Ogni giorno avvertivo quei teneri rumori sempre più familiari e quelle note sempre più prossime al mio cuore, ma più d'ogni altra cosa scoprivo sempre più a fondo la straordinaria natura di quella fidata amica, la musica, di cui mi ritrovai a non poter più fare a meno, proprio come si auspicava il lungimirante Suzuki. In maniera totalmente impercettibile, imparai a rispettare la disciplina, imparai la compostezza, la perseveranza e la pazienza. Che la più eccelsa rilevanza non l'aveva il risultato, bensì il cammino che mi conduceva allo stesso. Imparai a percorrerlo con volontà e determinazione, senza perdere mai l'ardore. Imparai a suonare, in definitiva, pur senza saper leggere uno spartito. 
Negli anni successivi, insegnanti calcolatori e privi di passione lesero in parte il mio rapporto col pianoforte, allontanandoci l'uno dall'altra, senza tuttavia riuscire ad intaccare in alcuna maniera le basi su cui tale relazione era nata. Quando ne ebbi a sufficienza e decisi di proseguire da autodidatta, mi ritrovai con ingenti lacune tecniche che fu proprio l'udito a compensare.
Al di là di ciò, nonchè dei benefici cognitivo-cerebrali che, secondo recenti ricerche (Nina Kraus, Northwestern University, Chicago)  lo studio musicale precoce comporterebbe, debbo molto più di quanto avrei mai potuto immaginare al signor Suzuki, tra cui senza dubbio parte di ciò che sono oggi.
Vorrei concludere con una splendida citazione dello stesso, che tra le molteplici proferite nel corso della sua duratura parabola di vita, meglio racchiude l’essenza del suo sogno imperituro: “che la musica renda l’uomo migliore, porti la pace e la gioia di vivere”.

venerdì 5 dicembre 2014

Prosopagnosia portami via


Sin dalla mia infanzia, uno dei tratti fondamentali della mia persona è sempre stato lo stesso: la persistenza di una memoria ferrea per i dettagli. A tale curiosa dote, se proprio così vogliamo chiamarla, si è tuttavia da sempre accompagnata un’inconciliabile gemella di ignoto ascendente, vale a dire una memoria a breve termine per le cose più rilevanti o le ovvietà, di norma dovuta a mera distrazione. Se da un lato ricordo perfettamente il cardigan rosso con due strisce bianche attorno ai bottoni, che indossavo il mio primo giorno di scuola sopra al grembiule, dall’altro non ho la minima idea di dove si sia nascosto il burrocacao che ho adoperato la bellezza di cinque minuti fa (perché sono sempre gli oggetti a celarsi da noi, si intende). Se da un canto ricordo a memoria i primi 24 versi del primo canto dell’Inferno dantesco, studiati in prima media, e la ridicola filastrocca americana che mi insegnò mia cugina quando avevo sette anni, dall’altro non ricordo minimamente la data di inizio del secondo conflitto mondiale, iniettatami continuamente negli anni scolastici e quotidianamente in quelli universitari, né tantomeno la raccomandazione telefonica di mia madre di pochi secondi fa. Inutile precisare, alla luce di ciò, il mio consueto abuso della funzione “promemoria” del cellulare. God bless technology, non lo dirò mai abbastanza.
Alla discutibile utilità del rammentare senza riserve la scritta in strass stampata sulla maglietta che sfoggiavi la sera di capodanno nel 2002 ma non ciò che indossavi ieri, si accompagna un ulteriore mirabolante elemento: la radicata difficoltà di registrare un volto nuovo.
Avendo in questi anni constatato, con copioso conforto, come il suddetto sia un problema particolarmente diffuso, ho voluto qui riportare la mia esperienza affinchè funga da exemplum a coloro che patiscono le medesime pene ivi esplicate, ma soprattutto perché in futuro, cari lettori smemorati, possiate sentirvi meno soli nelle vostre figuras minchiae.
Partiamo dal principio; dopo la stretta di mano, il mio cervello attiva automaticamente il pulsante reset, senza tuttavia ritrovare i dati salvati, una volta riavviato il sistema. A meno che non si tratti di un nome straniero o di facile portata mnemonica, la bella Monica, dopo pochi istanti, per me potrebbe tranquillamente chiamarsi Asdrubale.
Parimenti, salvo che abbia già visto più volte un determinato individuo o che abbia qualche peculiare caratteristica in grado di ancorarsi alla mia mente (e non parlo necessariamente di una chioma verde pisello o di un teschio rockabilly tatuato sullo zigomo), ho de sempre ingenti difficoltà nel memorizzare una novella fisionomia. Nonostante il beato facebook abbia in parte attenuato le figur’emmerd facilmente scaturibili dal problema in esame, talune circostanze permangono tuttora inesorabili. Considerando oltretutto che, per qualche ragione, il mio è uno di quei volti che pare rimanga facilmente impresso a buona parte dei miei occasionali interlocutori, vi lascio immaginare come i disguidi in tale ambito tendano, nel mio caso, a moltiplicarsi. Se a ciò aggiungete anche una marcata incapacità di mentire/assumere facce da culo quando necessario, potrete vagamente figurarvi lo spessore dell’imbarazzo sotteso alle situazioni di cui sovente la sottoscritta si ritrova protagonista. Lo stesso non si può certamente dire di mio padre, gene responsabile del mio connotato anzidetto, che una volta ho visto salutare un cordiale messere venutogli incontro con reiterati “carissimo! Tutto bene? La famiglia come sta?”, abbandonandosi a dieci abbondanti minuti di animata conversazione, per poi voltarsi verso di me e domandare sottovoce, una volta effettuati i congedi: “Shirin, ma…chi cazzo era?”


Tutti noi, almeno una volta, siamo stati erroneamente etichettati come maleducati per non aver rivolto il saluto a soggetti che ignoravamo totalmente di aver conosciuto in qualche precedente occasione, o per non aver risposto a quello a noi offerto da questi ultimi, ignari del fatto di esserne i destinatari. Analogamente siamo stati talvolta richiamati da esplicite apostrofi, cui normalmente, dopo il saluto di risposta, seguito da un’inequivocabile espressione perplessa, il nostro conoscente sconosciuto ci ha dischiuso la propria identità. Del tipo: 
- Sai sono Carlo, l’amico di Marco, ci siamo conosciuti tre mesi fa al compleanno di Antonio, ti ricordi?
Al che tenti in ogni modo di reprimere un istintivo: “Figlio mio, non ricordo neanche che ho mangiato ieri a cena, figurati chi ha attaccato bottone novanta giorni fa”, limitandoti ad un’osservazione sulle tue scarse virtù fisionomiste.
Fino a pochi anni orsono credevo di essere io quella messa male, ma debbo ringraziare il Cielo per avermi concesso di constatare come ci sia sempre, sempre qualcheduno messo peggio.
L’occasione si profilò nel lontano 2007, quando un certo kattivissimo@qualcosa.it (sì esatto, KATTIVISSIMO) mi aggiunse a buffo su messenger, invitandomi, dopo pochi scambi di battute, a scoprire dal vivo, presso la sua dimora, le ragioni del suo nick. Dopo averlo a mia volta invitato a sfogare la propria ferocia in solitudine, ci accomiatammo, ahimè non definitivamente, per poi ritrovarci qualche giorno dopo, in una nuova conversazione virtuale da lui intrapresa, con un copione piuttosto simile al precedente. Dopo avergli fatto notare che quello non fosse disgraziatamente il nostro primo colloquio, il nostro Rocco wannabe di colpo si allarmò, scambiandomi per una fanciulla con cui si era sollazzato qualche sera prima.
- Vorresti dire che io e te…io e te abbiamo…l’altra sera? Ti chiedo scusa…
- No guarda, non…
- Ti chiedo infinitamente scusa, proprio non ricordo.
- Ma guarda che…
- Non è una cosa personale, magari è stato bellissimo, è che non riesco a ricordarmi di tutte. Ricordo un bel momento, un bel corpo, ma le persone con cui l’ho passato proprio no…Poi sai, di notte è ancora più difficile...
- Si ma..
- Se vuoi però posso farmi perdonare. Sono molto bravo in questo…puoi usare manette, frusta, tutto quello che desideri…

A pensarci oggi, avrei dovuto proporre una ghigliottina pubica. Sarà per la prossima volta.

mercoledì 12 novembre 2014

La dignità delle senzatette



Signori, ma soprattutto signore, questo è l’intervento che mi tengo dentro da una vita, ed è dedicato a tutte voi nobili fanciulle che almeno una volta nella vostra, sentendo un uomo affermare che se avesse avuto le tette, sarebbe stato tutto il giorno a toccarsele, avete spontaneamente pensato “anch’io”.
Perchè senzatette si nasce, in casi come i nostri si vive, e normalmente si prende congedo dall’universo; ciò che desidero fare, in queste righe, è condividere con le medesime lo stile di vita che da tempo ci accomuna nella fase intermedia e mostrare al mondo come noi, fedeli membre dell’OIP (Organizzazione Internazionale del Piattume) esplichiamo lo stesso.
Partiamo da una considerazione basilare: la “senzatettitudine” non è un fenomeno sociale, bensì una condizione umana, e il fatto che l’epiteto di coloro che condividono tale stato esistenziale ricordi semanticamente il termine “senzatetto” non deve affatto suggerirne una natura mesta e insoddisfatta, anzi! Credo che tale sia piuttosto la condicio dei senzapalle, poichè mentre per passare da una prima a una terza bastano due protesi, per colmare vuoti di carattere non c’è Roy De Vita che tenga. 
Ma torniamo a noi. Partiamo dal principio: gli anni infantili.
Prima di raggiungere le due cifre, le mie più grandi aspirazioni nella vita erano tre: diventare Batman, sposare Michael Jackson e avere le tette. Ogniqualvolta mi accingevo a disegnare un soggetto di sesso femminile, che usualmente portava un volto molto simile al mio, partivo sempre dalla scollatura, che mostrava puntualmente una quarta di reggiseno. Inutile narrarvi come le proporzioni dei miei autoritratti siano sensibilmente mutate, dalla mia adolescenza in su.
Non v’era volta in cui, sfogliando cataloghi di intimo o guardando le vampire di Dracula morto e contento, non pensassi “vedrai, un giorno anche noi avremo quelle bocce”. Beato ottimismo puerile. Ricordo che una sera al ristorante socializzai con una prostituta, la quale sedeva sola su un tavolo per due, in attesa di un gentiluomo che le offrisse la cena e la portasse con sè. Indossava una pelliccia ecologica nera, una maglietta leopardata che poco lasciava all’immaginazione, ed una vistosa collana in strass. Da brava amante della sobrietà quale sono, il trio luccicchio-leopardo-rossetto rosso era una calamita irrefrenabile per mini-me, e non esitai un secondo al suo affettuoso invito ad avvicinarmi. Quando le dissi che mi piaceva il suo profumo, me ne donò qualche spruzzo, e parimenti, quando notò la meraviglia con cui fissavo la sua scollatura perfetta, gemella a quelle delle donnine dalla discutibile pudicizia che tanto amavo disegnare, mi invitò a toccarla. Rammento di averle anche detto, in preda alla contemplazione, che da grande sarei voluta diventare proprio come lei, la quale scoppiò a ridere e, carezzandomi il capo, disse “spero proprio di no, amore”. Mi ci volle qualche anno per capire le ragioni dell’ultima osservazione.


Veniamo allo step successivo: l’adolescenza, ovvero la fase del disincanto.
Questi sono gli anni in cui la trasognata speme si dissipa progressivamente dinanzi all’arido vero. Gli anni in cui la proverbiale discrezione di molte compagne le spinge continuamente a domandarti negli spogliatoi “oh, ma a te è venuto il ciclo??”, non essendovi, al di là dell’altezza e del posteriore, alcuna evidenza sotto la maglietta a testimoniarlo. Gli anni in cui i parenti giunti in visita dall’estero raccolgono i pezzi del proprio cuore in frantumi, constatata verbalmente l’evidenza che nelle dozzine di taglie M acquistate e portateti in dono ci sguazzeresti. “Ma Shirin joon (termine di cortesia o affettivo, letteralmente “caro/a”, che usualmente in farsi accompagna un nome proprio), credevo che con la pubertà le avresti riempite! Non pensavo che non ti sarebbero cresciute le tettine”. Ti voglio bene anch’io, zia.
Ogni teenager senzatette è stata, almeno una volta, privilegiata destinataria dei preziosi suggerimenti degli improvvisati dottor Oz della situazione, custodi di una profonda verità di vita, esclusivamente dispensata a te, fortunata fanciulla: “ti svelo un segreto, se mangi un po’ di più e metti su qualche chilo, questi si distribuiranno anche sul seno! Provaci!!” , ignorando l’esistenza di un particolare fenomeno chiamato metabolismo veloce, di cui godono persone come la sottoscritta, che non igrasserebbero sensibilmente neppure ingerendo un frullato di adipe suino. Che mondo sarebbe senza di voi, sublimi detentori dell’episteme?

Giungiamo ora alla fase adulta (nel mio caso gioventù adulta), l’era della consapevolezza.
E’ qui che di norma la popolazione senzatette si scinde in due fazioni: coloro che optano per il bisturi e coloro che, invece, decidono di farsi amiche le proprie minute compagne di vita. La g.a.s. (giovane adulta senzatette) che opta per la seconda posizione è una donna fiera e indipendente, che non scambierebbe le proprie susine neanche con due meloni aggratis, che conosce e ama il proprio corpo e che ironizza sullo stesso, senza permettere a nessuno di sminuirlo. Ricordo che una volta un ragazzo, spesso scosso dall’impellenza di lanciare la“battuta svolta” del momento, si accostò a me con un sorriso da orecchio a orecchio gridando, affinchè tutti sentissero: “Oh Shi, perchè te metti il reggiseno, se poi non c’hai niente da mettece dentro? Ahahahahah”
-“Per la stessa ragione per cui tu indossi le mutande”, risposi sorridendo io. La folla circostante la prese con una certa ilarità, lui non particolarmente.
Anche il mondo dello showbiz pullula di fulgidi esempi di g.a.s.; la divina Natalie Portman, l’algida Diane Kruger, la splendida Sienna Miller, l’adorabile Emma Watson, solo per citarne alcune, ma soprattutto la sublime Keira Knightley, prova tangibile del fatto che si può essere all’apice della figaggine non solo senza tette, ma persino senza culo.

Al di là di tutto ciò, vi è comunque un ricorrente fattore con cui le giovani senzatette debbono sovente misurare la propria pazienza: i negozi di intimo. Sì, poichè anche chi non ha il seno ha qualcosa per reggerne i surrogati, anzi, spesso è proprio questa categoria a svaligiare gli Yamamay o Intimissimi della città, per una semplice ragione. Vi è un’ampia percentuale di senzatette che è solita applicare, consapevolmente o meno, quello che amo chiamare “contrappasso self-made”, filosofia che poggia su un semplice, saldo postulato: se ho poco seno, voglio tanti reggiseni. Ma a differenza di ciò che il 90% delle commesse e degli stilisti crede (tu per primo, fottutissimo signor Tezenis), non tutte le retromarce desiderano ostentare tre taglie in più, un po’ perchè c’è chi trova poco corretto nei confronti dei giovinuomini presentarsi come Pamela Anderson, per poi rivelarsi Kate Moss una volta giunti al dunque, un po’ poichè le stesse preferiscono mostrare una tavola da surf autentica, piuttosto che due palloni da beach volley in gommapiuma. 
Dunque, dopo aver inutilmente passato in rassegna le copiose prime antiproiettile che popolano le sezioni dell’edificio ed aver finalmente adocchiato l’unico e solitario esemplare onesto, la senzatette si reca presso la cassa, ben consapevole della proposta che la attenderà a breve: “lo vuoi un paio di pesciolini? Sono solo 3 euro in più, te li metto nella busta?”
- No guardi, può ficcarseli nel...contenitore. Grazie comunque.
- Sicura? Guarda che sono stati creati apposta per chi ha poco seno.

Il cervello invece è stato creato apposta per riflettere prima di aprir bocca; quello sì che andrebbe messo in vendita, da qualche parte.

- Lo so, ma va bene così, grazie.
- Sicura sicura? Guarda che può farti due seni così!

Nel frattempo tu mi hai fatto due palle così, ergo prima che cadano a terra e ti mandi in loro compagnia, ti consiglio di battere quel dannato scontrino.

- La ringrazio signora, ma va bene così.
- Ma...
- Ne ho già due a casa.

Lo spessore di queste minchiate, che spesso l’esasperazione ci conduce a proferire, è comunque inferiore rispetto a quello dei pesciolini che le gentili commesse sono sempre pronte a propinarci.

- Aaaah e dillo prima! Guarda, ti lascio anche un buono per uno sconto del 10% sulle imbottiture per costumi, solo che noi le abbiamo finite. Prova ad andare all’altra sede.

La mia risposta è di norma un “grazie, arrivederci”, ma spero che un giorno una mia fedele sorella, dalla pazienza assai più ridotta della mia, vi indichi espressamente dove dovreste provare ad andare voi.

venerdì 24 ottobre 2014

Cherry lips ....o forse no


Buondì, egregi lettori.

Oggi parleremo di chirurgia estetica, nello specifico di cheiloplastica, termine con cui usualmente si fa riferimento agli interventi mirati a incrementare il volume delle labbra.
Da sempre sono una ferma sostenitrice della chirurgia plastica, sebbene alla luce dei notevoli progressi effettuati in tale ambito, oggigiorno suoni quasi inadeguato impiegare il suddetto termine, in virtù dell’estrema naturalezza dei risultati perseguibili mediante molte tipologie di operazioni. Trovo che chiunque abbia il diritto di sentirsi in armonia col proprio corpo e, laddove il lavoro individuale non dovesse risultare sufficiente a tal fine, ritengo sia lecito, alle volte persino consigliabile, rivolgersi alla chirurgia, purchè venga impiegata responsabilmente e soprattutto purchè non se ne facciano abusi, come talvolta accade.
Nonostante la mirabile evoluzione delle tecniche operative, la cheiloplastica, aka “gonfià er labbro”, rimane tuttora uno degli interventi meno celabili in assoluto, un po’ per l’estrema evidenza della zona, un po’ per la discutibilità del senso della misura di un discreto numero di pazienti/medici, che alle volte impedisce ai soggetti in esame di  notare che trasformare una retta in un’intersezione tra due parabole dello spessore di un marshmallow non è una scelta granchè ottimale.
Onde consentirvi una corretta analisi della prassi, sottoporrei alla vostra attenzione qualche celebre esempio in cui il filler (o le protesi, a seconda dei casi), a mio parere, sarebbe potuto starsene tranquillamente a casa.

1) Partiamo da un caso nostrano: l’incantevole Ilary Blasi


Il perchè una gnocca clamorosa, oltretutto con labbra già di per sè sufficientemente carnose, abbia optato per “il ritocchino”, deturpando un viso fottutamente scolpito, resta per me un mistero. Che dire, contenta lei, contenti tOtti.

2) Passiamo un po’ oltreoceano, e rechiamoci presso la favolosa Meg Ryan


Chi di noi non rammenta la briosa Sally Albright e il suo famigerato orgasmo simulato in Harry ti presento Sally?
In base all’usuale standard hollywoodiano, taluni potrebbero osservare che la fanciulla non fosse propriamente un concentrato di erotismo, ma senza dubbio la fu MargaretMaryEmilyAnneHyra era una donna più che gradevole alla vista. Qualora ne aveste perso le tracce, quello sovrastante è il volto della suddetta oggi, più simile ad una mongolfiera con la parrucca di Tina Cipollari, più che a una candidata al Golden Globe.

3) Rimaniamo negli Stati Uniti e veniamo a lei, una delle donne per cui avrei volentieri cambiato orientamento sessuale: Lindsay Lohan.


Perchè fai tutto questo, Lindsay? Eri una topa spaziale prima di fregare la tinta a Daenerys Targaryen e a conciarti come un reduce da un infausto incontro con Mike Tyson, con quel ramato che passeggiava serenamente a braccetto con le tue splendide lentiggini, danzava coi tuoi splendidi occhi e carezzava il tuo splendido sorriso. Perchè tramutare questo quadro bucolico in una trash-Monna Lisa in perenne modalità duckface? Perchè?

4) Terminiamo con lo scempio estetico più sacrilego degli ultimi anni, la mano che ha squarciato uno dei volti più fulgidi e splendenti del red carpet: la sublime Nicole Kidman


Nei miei anni puerili ricevetti in regalo, durante un weekend a Rimini, una ciambella gonfiabile dalle sembianze di uno pneumatico, su cui passai metà delle mie estati, fin quando un tristo fato lo bucò e separò le nostre strade. La prima volta che vidi il novello investimento dell’algida Nicole, pensai alla mia ciambella, tagliata a metà, coperta di rouge allure Chanel e conficcatale in viso.
Ciò che mi reca più pensiero, nondimeno, è che quelle labbra neppure il fato, per quanto tristo o per quanto fausto, ricondurrà nuovamente allo stato originario.

mercoledì 1 ottobre 2014

Moi, je m'appelle lolita


Bonjour a tout le monde (alla luce del titolo, ho voluto assecondare almeno nell’incipit la vena francofona). Oggi tratterò un tema a me particolarmente a cuore, uno stigma che ahimè affligge larga parte della popolazione femminile, e in parte maschile, mondiale: i tardoni lascivi.
Il tardone lascivo è un comune esemplare virile di mezza età, di norma scapolo (tuttavia “per scelta”. Sì, degli altri), talvolta reduce da un matrimonio spezzato, altre volte ancora incastrato in una relazione “in crisi”, che giunto a tal punto della propria esistenza, ha assurto a un momento epifanico, travolto da un’illuminazione che pare gli abbia mostrato la giusta via da intraprendere per evadere dal consueto tedium vitae. Se taluni si danno allo yoga, al fitness, alla chirurgia estetica o al veganismo, il tardone lascivo continua a dedicarsi a quella che probabilmente è da tempo la sua costante di vita: la fica (perdonate la scurrilità del lessico, ma debbo conformarlo al degrado tematico). Ciò che cambia, tuttavia, è la fascia d’età delle fanciulle detentrici della stessa che ne suscitano l’interesse, ora oscillante tra i 18 e i 29 anni.
Il modus agendi del tardone lascivo è variabile; c’è chi intraprende la propria azione con fare paterno e apprensivo per poi svelare, in graduale progressione, le proprie intenzioni effettive, e chi invece preferisce un approccio più diretto, profondamente convinto che una fanciulla che, per educazione, da la mano sia disposta a dare anche altro nei successivi tre minuti. C’è chi fa perno sulla propria consolidata esperienza, ignorando l’inesorabile evoluzione delle tecniche di rimorchio dagli anni settanta ad oggi, chi sul proprio consolidato patrimonio, ignorando che non sempre aprendo il portafoglio si aprano anche le gambe della diretta interessata, chi sul proprio (presunto) consolidato fascino, ignorando che rispondere ad un saluto non significa “sventrami”. Le sfumature sono molteplici.  Nondimeno la variegata eterogeneità strategica è compensata da una netta comunanza di interessi, convenzionalmente riconducibili ad un unico fine universale: chiavare. 


Ritengo necessario puntualizzare come da sempre nutra un marcato apprezzamento per l’omo maturo, che alle volte preferisco persino ai miei coetanei, ma con esclusivo riferimento a colui che flirta col garbo e la discrezione propri della sua semisecolare età, non a chi che te lo sbatte in faccia senza dignità.
Per qualche ignota ragione, all’incirca dai miei 14 anni, possiedo un’invisibile calamita per uomini che potrebbero essere miei ascendenti e, per qualche altrettanto oscura causa, metà di essi rientra esattamente nella seconda categoria. Potrei scrivere un poema in esametri sui multicromatici tentativi di abbordaggio over 50 di cui sono stata protagonista.
Taluni esordiscono col sempreverde “non ti ho già vista da qualche parte?”. No, pà. Altri con l’altrettanto saldo “non sei italiana, vero?”, spesso seguito da un “aspetta, non me lo dire! Scommetto che sei...”, cimentandosi in un autopromosso indovinello mai conclusosi correttamente. “Giordana? Palestinese? Afghana? Turca? Israeliana?”- no Sherlock, l’unica che non hai menzionato. Alcuni si abbandonano poi ad un improvvisato excursus sulla storia dell’impero persiano, consci della natura afrodisiaca della cultura ma ignari dell’effetto fucila-libido delle osservazioni successive, mentre altri passano direttamente allo step susseguente: “sei fidanzata?”
Non importa quale risposta darete; vi è un piano d’azione specifico per ogni eventualità.
No => “ma come è possibile che una ragazza così bella sia single? Non è che ti piace divertirti, eh?” / ”eh, ma che fanno i tuoi coetanei, dormono se non ti hanno ancora accalappiata!”, manco fossi un akita inu randagio.
=> “e beh, mi pareva ovvio che una ragazza così bella fosse impegnata. Mica dorme la gente” / ”eh, fortunato il tuo ragazzo. E di un po’, ce ne hai solo uno?”. Sai com è, in questa vita ho preferito optare per la monogamia.
A ciascuna ipotesi seguirà il dischiudersi della riflessione principale, a cui mirava l’intera conversazione: “ma sai, i tuoi coetanei non possono capire. Noi uomini siamo sempre un po’ immaturi, sempre un passo indietro rispetto a voi donne, ma con l’età miglioriamo, e solo allora sappiamo capirvi. Poi nessun ventenne o giù di lì saprà mai trattarti come un uomo della mia età; noi siamo galanti, maturi, indipendenti, e soprattutto più esperti, sai, non so se mi spiego...Non sai davvero quello che potrei darti”. No, ma so benissimo quello che potrei dare io a te; una bella ginocchiata sui coglioni.

Nonostante tutto ciò, debbo constatare quanto quella dei tardoni lascivi, per quanto triste, sia comunque una categoria meno penosa rispetto a quella del discotronista menomato, il cui mantra sostanzialmente è “me la da fino a prova contraria”. 
Ma quella, fortunatamente, è un’altra storia.