lunedì 28 marzo 2016

Cicatrici


Ho sempre scorto un certo fascino nelle cicatrici.

C’è chi le definisce racconti narrati sul corpo, chi tatuaggi con storie più interessanti, e chi ancora ne esorta i detentori a mostrarle con fierezza, in quanto testimoni di una forza superiore rispetto a quella di ciò che ha provato a lederli.
Tutti noi ne abbiamo almeno una, per una ragione o l’altra. Vi sono quelle frutto di vivacità puerili (quali i segni dei copiosi ginocchi sbucciati e degli arti martoriati durante le nostre improbabili imprese, che da bambini mostravamo con sommo orgoglio agli amici), quelle prodotte da incidenti successivi, quelle di natura patologica e quelle figlie di vicende chirurgiche. Vi sono inoltre quelle non accidentali, che taluni si procurano in modo volontario, sovente per avvertire meno un dolore ben più ampio di quello fisico.
Qualunque ne sia l’origine, sono tracce di vita che marchiano ogni individuo sulla faccia della Terra, se pur in maniera differente, e dunque tutti ne abbiamo in qualche modo fatto esperienza.
Ciò che ha da sempre suscitato il mio interesse risiede nella loro natura; esse sono frammenti della nostra storia, dei nostri tormenti e dei nostri dolori, ma più d’ogni altra cosa, le cicatrici ci mostrano, nella maniera più concreta e tangibile al mondo, che non v’è ferita, per quanto profonda e straziante, che non possa rimarginarsi. Naturalmente la zona colpita non sarà mai come prima; permarrà un segno, più o meno evidente, che in un primo periodo potrà dolere al tatto, ma che col passar del tempo diverrà quasi totalmente indolore. Tuttavia essa rimarrà là, affinchè il suo detentore non si scordi mai della sua esistenza e di come se l’è procurata, quasi un monito lì a dire “stavolta hai fatto di testa tua, ma vedi di non riprovarci”, ma anche un rinnovato tratto, un novello attributo del nostro animo, poichè è con l’esperienza ch’esso si adorna, mesta o ridente che sia.
Anch’io, come tutti, ne ho qualcuna, in buona parte dovute alla mia spregiudicatezza infantile, ma non solo. Quella a cui sono più legata la ho sul viso, sotto il sopracciglio destro. E’ un piccolo taglio incolore, ormai praticamente invisibile. Da quando si è riassestata, quasi nessuno si è mai accorto della sua presenza, ma io la vedo. La guardo tutti i giorni; la mattina, quando mi lavo il viso, e la sera, quando lo strucco, e ogni volta le dedico qualche secondo. Ricordo il solco largo e profondo che era due anni fa, prima che il medico ne ricongiungesse abilmente i lembi, rammento il lancinante dolore che mi procurò, fisico quanto emotivo. Ricordo il mio sconcerto la prima volta che mi guardai allo specchio, poco dopo aver ripreso conoscenza, così come le mani tremolanti con cui tentavo di ripulire il sangue che mi copriva larga parte del volto.
Ricordo tutto ciò che è stato e osservo tutto ciò che v’è ora. Laddove un tempo vi era uno sfregio profondo, ora non c’è altro che un minuscolo segmento a stento visibile, ed è proprio questo il punto. La sera in cui me la procurai, passeggiavo beatamente in soggiorno, totalmente ignara del fatto che in pochi secondi avrei repentinamente perso i sensi, ritrovandomi al mio risveglio seduta contro il muro, con mezzo viso tinteggiato di porpora. Alla stessa maniera, spesso i tormenti più grevi fanno ingresso bruscamente nella nostra quotidianità, senza pietà o preavviso, lasciandoci smarriti e soggiogati dal fardello degli eventi. Tuttavia non vi è sferzata, per quanto dilaniante, che non possa essere curata, se pur con ingenti, assai ingenti dosi di forza e pazienza. In seguito, una volta riassestate, ne conserveremo le rigorose impronte e le sfoggeremo senza vergogna; sono le nostre ferite di guerra, quelle battaglie che tutti noi siamo destinati a combattere, una guerra da cui saremo usciti vincitori e di cui mostreremo orgogliosamente i segni, quelli che plasmano la nostra essenza, rendendola compiutamente ma anche splendidamente imperfetta.


V’è una pratica assai singolare in Giappone, e a mio parere parimenti affascinante, che descrive appieno tale filosofia. Si tratta del kintsugi, letteralmente “riparare con l’oro”, consistente nel riassemblare i pezzi di un oggetto andato in frantumi, di norma in ceramica, con oro o argento liquido (talvolta con lacca e polvere d’oro), con lo scopo di ripararlo, accrescendone al contempo pregio e bellezza. La ratio alla base di tale prassi alberga nell’idea tipicamente orientale secondo cui il dolore, in quanto parte inevitabile della vita, non debba essere celato o represso, bensì vissuto in tutta la sua pienezza. Analogamente, le spaccature degli oggetti in esame non andranno occultate, bensì accentuate e valorizzate, poichè contribuiscono a denotarne l’unicità e la magnificenza. In altre parole, secondo tale pensiero, i mali e le ferite non deturpano il nostro animo, ma ne divengono parte integrante, connotandone la peculiarità, in quanto tappe della sua storia. Ben lungi dall’intaccarne lo splendore, le cicatrici che alle volte ci lascia la sofferenza racchiudono un significato, la cui accettazione può generare una forma assai più elevata di bellezza, quella di un animo rigenerato e meravigliosamente autentico nelle sue imperfezioni.

Afferro dunque questo saldo filo conduttore, nel lanciarvi la mia assai sentita apostrofe; non temete il dolore, poichè da esso non si può che apprendere, e non rinunciate mai a un progetto o un’idea che vi stia profondamente a cuore per l’umano timore di procurarvene una dose. Vi è sempre un’alta probabilità di pungerci nel tentare di cogliere la nostra rosa prediletta, ma vi sono rischi che vale perennemente la pena correre. Valutate attentamente e affrontateli, se da ciò dipendono la vostra felicità e integrità emotiva. E qualora doveste squarciarvi, non celate le vostre lacerazioni; per dirla nei termini di Marina Abramović, “alle persone piace creare la migliore immagine di sè stessi e poi nascondere lo schifo, ma la mia idea è di esporre tutto. L’essere umano deve essere onesto in merito a sè stesso e agli altri. Va bene non essere perfetti. Va bene che tutti noi abbiamo problemi. Va bene piangere, mostrare le emozioni.
La mia non è un’esortazione a mostrarsi agli altri, ma a noi stessi, gli unici spettatori che non potremo mai ingannare. Impariamo a scoprire le nostre cicatrici, impariamo ad accettarle, ma sopra ogni cosa impariamo ad amarle, al pari delle nostre virtù, se non maggiormente, chè ciascun taglio è una lezione che porteremo sempre addosso, nonchè un'indissolubile parte di noi.  

Vi accomiato con un disarmante lavoro del fotografo Daniele Deriu, in cui sono casualmente inciampata tempo fa, il cui nome, "Scars of life", ne esplica chiaramente il fulcro (https://www.facebook.com/media/set/?set=a.1783448565215390.1073741835.1780122035548043&type=3&pnref=story). Questi scatti mostrano magistralmente quanto affermato dallo stesso Deriu, e che io mi accingo ampiamente ad abbracciare: dall'inferno si può tornare. Eccome se si può.

venerdì 29 gennaio 2016

Sticazzi


Buongiorno cari lettori.

Vi starete lecitamente domandando le ragioni di tale titolo, non particolarmente aulico. Ebbene, si da il caso che nell'ampia gamma delle espressioni scurrili che la lingua italiana ha da offrirci, "sticazzi" sia quella di cui faccio forse più frequentemente abuso. Sì, sticazzi, inteso nel senso romanesco originario del termine, trattandosi di un'enantiosemia.
Sticazzi significa chisseneimporta, significa carenza di interesse, o magari implica la volontà di cessare di nutrire un interesse portato avanti troppo a lungo, ma privo di un lieto fine. Significa "pace, non è andata come avrei voluto, ma la vita va avanti". Proprio così, la vita va avanti. Sovente non come avremmo immaginato o come ci saremmo auspicati, ma vi sono circostanze da noi indipendenti, in cui la nostra volontà perde qualsiasi rilevanza. La perde sul corso degli eventi, non sul nostro modo di approcciarci agli stessi. Ed è allora che è inutile piangersi addosso, maledire il Cielo o il fato, e buttarci a terra. E qualora siate momentaneamente caduti sotto il peso degli eventi, prendetevi il tempo che vi occorre e tornate nuovamente in piedi. Dopodichè dite quelle otto preziose lettere che racchiudono tutta la consapevolezza del mondo: sticazzi! E credeteci a fondo mentre le intonate, abbracciate tale consapevolezza. Quella che stavolta è andata così, ma ce ne sarà una prossima. La prima di una lunga serie, fatta di alti e bassi, che rendono la vita un romanzo dall'intreccio senza pari. Vivetela, perchè pare sia una sola, e scrivetela senza timori. E se un capitolo dovesse risultarvi doloroso, rammentate sempre che ve ne è un altro a seguire.
Questa cosa non è andata in porto, nonostante i miei sovrumani sforzi? Che rabbia, che nervi, che diamine, ma alla fine, una volta sfogate ira e insoddisfazione, arriviamo sempre lì: va beh oh, sticazzi. Questa opportunità spettava a me, mi sono fatto in quattro, ma è finita nelle mani di qualcun altro? Sticazzi. Quel caro amico non vuole più parlarmi, pur avendo io fatto di tutto per salvare il rapporto? Sticazzi. Quella persona doveva stare con me, e invece ha preferito un'altra/un altro? Sticazzi.
Sticazzi, figli miei, sti grandissimi cazzi. Laddove nulla possono le nostre azioni, tutto può il nostro stato d'animo. E imparare a vivere sereni è una delle più immense lezioni di amor proprio che si possano apprendere. 
Dal momento che a nessuno è dato frenare una tempesta, per dirla con la metafora tanto cara a Gandhi, impariamo a danzare sotto la pioggia. Crogiolarsi temporaneamente nel dolore è umano, così come lo è esserne alle volte sopraffatti, ma lasciate che tali frangenti abbiano carattere transitorio. Se volete bruciare, fatelo solo per risorgere dalle vostre ceneri.
Non siamo noi, ahimè, a stabilire la durata di certe fasi, ma siamo senza dubbio in grado di renderle più tollerabili.

Chi mi conosce a fondo sa bene quanto sia improbabile per me, il più delle volte, nascondere i miei stati d'animo, che divengono dunque facilmente evidenti a chi mi sta dinanzi, pur senza che io ne faccia parola. Alla luce di ciò, non essendo molto abile nel mascherare i miei turbamenti, ho deciso di far mio un consiglio dispensatomi anni fa da un'anima assai prossima alla mia: sorridere, sorridere nel dolore. Se non si può camuffare l'angoscia, tanto vale combatterla a viso scoperto, e non con un'arma qualsiasi, ma con la più antitetica immaginabile: il sorriso. Quello che talvolta è così difficile da trovare, quello che sotto certi fardelli dimentichiamo di possedere e di essere sempre in grado di sfoggiare. E anzi, più grave è tale peso, più sfacciatamente dovremmo guardarlo ridenti, poichè a volte, assai copiose volte, le lacrime non bastano.
V'è una scena, una delle più celebri della storia del cinema, che rappresenta in maniera eccelsa ciò che tanto mi preme dirvi. Si tratta della sequenza di chiusura di Tempi moderni, del divino Chaplin (per chi non avesse mai avuto il piacere di vedere quest’opera d’arte, può rimediare qui: https://www.youtube.com/watch?v=Ps6ck1ejoAw ). E' quella in cui Charlot e la sua compagna d'avventure, in seguito a mille peripezie, dopo aver finalmente raggiunto la vetta delle proprie aspettative ed essere caduti bruscamente a terra, si ritrovano sul ciglio di una strada, senza più nulla, nè un soldo, nè un briciolo di speranza. Improvvisamente la fanciulla, colta dallo sconforto, scoppia in lacrime, domandando al proprio partner che senso abbia continuare a provarci. E lì il vagabondo, pur condividendo la medesima condizione, le afferra il braccio, esortandola a non perdersi d'animo e rassicurandola col suo contagioso entusiasmo. Dopo aver guadagnato la sua convinzione, egli balza nuovamente in piedi aiutandola a fare altrettanto e rimettendosi immediatamente in carreggiata, diretti verso nuove, illimitate mete. Ma prima di intraprendere il cammino, Charlot si volta verso di lei e fa quel gesto essenziale, che racchiude tutta la sua imperitura filosofia di vita; sorride a pieni denti, invitandola ad emularlo. E così sorridono assieme, ai propri fallimenti, al proprio timore ma anche al proprio inesplorato futuro. Solo allora, una volta indossata la propria fulgida fiducia nello stesso, procedono determinati, mano nella mano, alla volta di quest’ultimo, accompagnati dalle immortali note di Smile, scritta e composta nel ’36 dallo stesso Chaplin, nonchè pezzo con cui serbo un legame particolare.


E’ dunque con una delle strofe a me più care della stessa che vi congedo, augurandovi di trovare sempre, in qualche ignota parte di voi, la volontà di fare esattamente ciò che suggerisce il verso principale: sorridere nonostante ci dolga il cuore.

"Smile though your heart is aching,
 smile even though it's breaking,
 when there are clouds in the sky,
 you'll get by,
 if you smile through your fear and sorrow
 smile and maybe tomorrow
 you'll find that life is still worthwhile
 if you just smile".