Ho sempre scorto un certo fascino nelle cicatrici.
C’è chi le definisce racconti narrati sul corpo, chi
tatuaggi con storie più interessanti, e chi ancora ne esorta i detentori a
mostrarle con fierezza, in quanto testimoni di una forza superiore rispetto a quella
di ciò che ha provato a lederli.
Tutti noi ne abbiamo almeno una, per una ragione o l’altra.
Vi sono quelle frutto di vivacità puerili (quali i segni dei copiosi ginocchi
sbucciati e degli arti martoriati durante le nostre improbabili imprese, che da
bambini mostravamo con sommo orgoglio agli amici), quelle prodotte da incidenti
successivi, quelle di natura patologica e quelle figlie di vicende chirurgiche.
Vi sono inoltre quelle non accidentali, che taluni si procurano in modo
volontario, sovente per avvertire meno un dolore ben più ampio di quello fisico.
Qualunque ne sia l’origine, sono tracce di vita che marchiano
ogni individuo sulla faccia della Terra, se pur in maniera differente, e dunque
tutti ne abbiamo in qualche modo fatto esperienza.
Ciò che ha da sempre suscitato il mio interesse risiede
nella loro natura; esse sono frammenti della nostra storia, dei nostri tormenti
e dei nostri dolori, ma più d’ogni altra cosa, le cicatrici ci mostrano, nella
maniera più concreta e tangibile al mondo, che non v’è ferita, per quanto
profonda e straziante, che non possa rimarginarsi. Naturalmente la zona colpita
non sarà mai come prima; permarrà un segno, più o meno evidente, che in un
primo periodo potrà dolere al tatto, ma che col passar del tempo diverrà quasi totalmente
indolore. Tuttavia essa rimarrà là, affinchè il suo detentore non si scordi mai
della sua esistenza e di come se l’è procurata, quasi un monito lì a dire “stavolta
hai fatto di testa tua, ma vedi di non riprovarci”, ma anche un rinnovato
tratto, un novello attributo del nostro animo, poichè è con l’esperienza ch’esso
si adorna, mesta o ridente che sia.
Anch’io, come tutti, ne ho qualcuna, in buona parte dovute
alla mia spregiudicatezza infantile, ma non solo. Quella a cui sono più legata
la ho sul viso, sotto il sopracciglio destro. E’ un piccolo taglio incolore,
ormai praticamente invisibile. Da quando si è riassestata, quasi nessuno si è
mai accorto della sua presenza, ma io la vedo. La guardo tutti i giorni; la
mattina, quando mi lavo il viso, e la sera, quando lo strucco, e ogni volta le
dedico qualche secondo. Ricordo il solco largo e profondo che era due anni fa,
prima che il medico ne ricongiungesse abilmente i lembi, rammento il lancinante
dolore che mi procurò, fisico quanto emotivo. Ricordo il mio sconcerto la prima
volta che mi guardai allo specchio, poco dopo aver ripreso conoscenza, così
come le mani tremolanti con cui tentavo di ripulire il sangue che mi copriva
larga parte del volto.
Ricordo tutto ciò che è stato e osservo tutto ciò che v’è
ora. Laddove un tempo vi era uno sfregio profondo, ora non c’è altro che un
minuscolo segmento a stento visibile, ed è proprio questo il punto. La sera in
cui me la procurai, passeggiavo beatamente in soggiorno, totalmente ignara del
fatto che in pochi secondi avrei repentinamente perso i sensi, ritrovandomi al
mio risveglio seduta contro il muro, con mezzo viso tinteggiato di porpora. Alla
stessa maniera, spesso i tormenti più grevi fanno ingresso bruscamente nella
nostra quotidianità, senza pietà o preavviso, lasciandoci smarriti e soggiogati
dal fardello degli eventi. Tuttavia non vi è sferzata, per quanto dilaniante, che
non possa essere curata, se pur con ingenti, assai ingenti dosi di forza e
pazienza. In seguito, una volta riassestate, ne conserveremo le rigorose
impronte e le sfoggeremo senza vergogna; sono le nostre ferite di guerra,
quelle battaglie che tutti noi siamo destinati a combattere, una guerra da cui
saremo usciti vincitori e di cui mostreremo orgogliosamente i segni, quelli che
plasmano la nostra essenza, rendendola compiutamente ma anche splendidamente
imperfetta.
V’è una pratica assai singolare in Giappone, e a mio parere parimenti
affascinante, che descrive appieno tale filosofia. Si tratta del kintsugi, letteralmente “riparare con
l’oro”, consistente nel riassemblare i pezzi di un oggetto andato in frantumi, di
norma in ceramica, con oro o argento liquido (talvolta con lacca e polvere
d’oro), con lo scopo di ripararlo, accrescendone al contempo pregio e bellezza.
La ratio alla base di tale prassi alberga nell’idea tipicamente orientale secondo
cui il dolore, in quanto parte inevitabile della vita, non debba essere celato
o represso, bensì vissuto in tutta la sua pienezza. Analogamente, le spaccature
degli oggetti in esame non andranno occultate, bensì accentuate e valorizzate,
poichè contribuiscono a denotarne l’unicità e la magnificenza. In altre parole,
secondo tale pensiero, i mali e le ferite non deturpano il nostro animo, ma ne
divengono parte integrante, connotandone la peculiarità, in quanto tappe della
sua storia. Ben lungi dall’intaccarne lo splendore, le cicatrici che alle volte
ci lascia la sofferenza racchiudono un significato, la cui accettazione può generare
una forma assai più elevata di bellezza, quella di un animo rigenerato e
meravigliosamente autentico nelle sue imperfezioni.
Afferro dunque questo saldo filo conduttore, nel lanciarvi
la mia assai sentita apostrofe; non temete il dolore, poichè da esso non si può
che apprendere, e non rinunciate mai a un progetto o un’idea che vi stia
profondamente a cuore per l’umano timore di procurarvene una dose. Vi è sempre
un’alta probabilità di pungerci nel tentare di cogliere la nostra rosa
prediletta, ma vi sono rischi che vale perennemente la pena correre. Valutate
attentamente e affrontateli, se da ciò dipendono la vostra felicità e integrità
emotiva. E qualora doveste squarciarvi, non celate le vostre lacerazioni; per
dirla nei termini di Marina Abramović, “alle
persone piace creare la migliore immagine di sè stessi e poi nascondere lo
schifo, ma la mia idea è di esporre tutto. L’essere umano deve essere onesto in
merito a sè stesso e agli altri. Va bene non essere perfetti. Va bene che tutti
noi abbiamo problemi. Va bene piangere, mostrare le emozioni. “
La mia non è un’esortazione a mostrarsi agli altri, ma a noi
stessi, gli unici spettatori che non potremo mai ingannare. Impariamo a
scoprire le nostre cicatrici, impariamo ad accettarle, ma sopra ogni cosa
impariamo ad amarle, al pari delle nostre virtù, se non maggiormente, chè
ciascun taglio è una lezione che porteremo sempre addosso, nonchè un'indissolubile parte di noi.
Vi accomiato con un disarmante lavoro del fotografo Daniele Deriu, in cui sono casualmente inciampata tempo fa, il cui nome, "Scars of life", ne esplica chiaramente il fulcro (https://www.facebook.com/media/set/?set=a.1783448565215390.1073741835.1780122035548043&type=3&pnref=story). Questi scatti mostrano magistralmente quanto affermato dallo stesso Deriu, e che io mi accingo ampiamente ad abbracciare: dall'inferno si può tornare. Eccome se si può.
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